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Taiwan – il divide et impera alla pechinese

Emmanuel Macron, XI Jinping e Ursula con del Leyen. Fonte: Imagoeconomica

In questi tempi di interminabili crisi (ribattezzate da papa Francesco come una sorta di Terza guerra mondiale, sebbene più frammentata e ambigua delle due precedenti) stanno suscitando preoccupazione le provocazioni militari della Cina comunista contro l’isola di Taiwan, l’ultima delle quali ha visto un dispiegamento di numerosi aerei e navi, compresa la portaerei Shandong, fiore all’occhiello dell’ambiziosa marina di Xi Jinping. Ad aggiungere del pepe alla vicenda vi è il fatto che nonostante si trattasse di una simulazione, i mezzi impiegati fossero anche armati, come per lanciare il messaggio: “Attenzione, che qui non stiamo proprio scherzando”.

Molti si chiedono perché la Cina insista a fare pressione su quest’isoletta tra il Mare Cinese orientale e meridionale, tracciando un prevedibile parallelismo con l’aggressione russa all’Ucraina. In realtà vi sono sia punti in comune che importanti differenze con quest’ultimo scenario. 

Prima di tutto dietro alla contesa vi è un trascorso storico molto ingarbugliato rispetto ai rapporti comunque turbolenti tra Mosca e Kiev, a cominciare dal fatto che il governo di Taipei non è riconosciuto che da una manciata di paesi nel mondo, ma da nessuna grande potenza. Taiwan deve la sua indipendenza al fatto che all’indomani della sconfitta giapponese che aveva quasi conquistato l’intera Cina, quest’ultima era martoriata da decenni di aggressioni straniere e da un’ingovernabilità endemica che l’avevano trasformata in un campo di battaglia tra varie fazioni interne. Gli ultimi duellanti in ordine di tempo erano i comunisti di Mao Zedong e i nazionalisti di Chiang Kai-shek (Jiang Jieshi) che negli anni quaranta, dopo essere stati alleati contro l’invasore nipponico, si contesero ferocemente il dominio del paese. Alla fine i nazionalisti persero la lotta e fuggirono in massa a Taiwan, dove poterono godere della protezione americana e per molti anni della stessa debolezza dei cinesi comunisti che non erano semplicemente in grado di sbarcare sull’isola per occuparla.

Per anni la comunità internazionale riconobbe il governo di Taiwan come l’unica Cina legittima, con tanto di seggio permanente al Consiglio di sicurezza dell’ONU che la rendeva un soggetto alla pari con i giganti vincitori della Seconda guerra mondiale. Le cose cambiarono improvvisamente negli anni ’70, quando il presidente americano Richard Nixon e il suo segretario di Stato Henry Kissinger decisero di riconoscere la Cina comunista al posto di questa nazionalista, che perse poco dopo anche il suo seggio alle Nazioni Unite. Questa mossa, considerata da molti analisti un capolavoro strategico, mirava a mettere in difficoltà l’Unione sovietica, che stava vivendo una stagione di forte conflittualità (vi fu persino una scaramuccia di confine nel 1969) con il suo vecchio pupillo maoista e si ritrovò così a dover far fronte tanto agli americani che ai cinesi.

Oggi questo triangolo pare rovesciato, o meglio è ritornato ad essere quello che era ai primi anni ’50 del secolo scorso, quando Russia (allora URSS) e Cina facevano fronte comune contro le potenze capitaliste (leggi ora Occidente collettivo), Stati Uniti in testa. Come allora ogni mossa ha effetti significativi sull’enorme scacchiere che va da Washington a Vladivostok, passando per Taiwan. Si pensi alla crisi ucraina che sta divorando enormi risorse occidentali nella vaga speranza di sconfiggere lo zar Putin, mentre rischiano di assottigliarsi quelle che potrebbero essere impiegate per contenere la Cina. 

Rimanendo nella sua comoda ambiguità su quanto avviene in Europa, Xi Jinping sta guadagnando punti da tutte le parti, anche nei confronti di Mosca, che sta scivolando in una condizione di subordinazione verso Pechino. E che dire della recentissima missione in Cina del tandem Macron-von der Leyen, iniziata col timido rimbrotto della presidente della Commissione Ue contro le minacce di Pechino a Taiwan e la richiesta della tanto promessa ma mai concretizzata telefonata di Xi a Zelens’kyj? Una volta che Ursula è volata via, Macron, divenuto ormai il politico più potente in Europa dopo l’uscita di scena della Merkel, ha continuato il suo tour in Cina facendo affari per l’esercito di industriali che lo ha accompagnato. E, ciliegina sulla torta, sfoggiando pure qualche richiamo gollista sulla volontà europea (leggi soprattutto francese, per stuzzicare comprensibilmente un elettorato ancora nervoso per la questione pensioni) di non essere vassalla dell’America, per la gioia dell’ospite cinese che vede nell’allontanamento delle due sponde dell’Atlantico il pane delle sue aspirazioni globali.

Nel bel mezzo di questa confusione nella famiglia occidentale si profila dunque possibile un’invasione cinese senza colpo ferire? A parte l’imprevedibilità di un simile colpo di mano, non potendo mai prevedere del tutto come possa degenerare una crisi del genere, negli ultimi anni gli strateghi militari si sono sbizzarriti sul capire se sia finanche un’operazione fattibile. C’è chi dice che la Cina potrebbe gettarsi in un pantano simile a quelli vissuti nell’America nel Grande Medio Oriente (Afghanistan e Iraq docet) e non mancano neppure quelli che paventano le difficoltà per gli Stati Uniti e i suoi alleati di bloccare in tempo l’eventuale D-Day cinese. 
Di sicuro la Cina di XI non rinuncerà mai a recuperare questa ‘provincia ribelle’, non solo per ragioni di prestigio per la leadership comunista, ma per una serie di ragioni non indifferenti che vanno dalla posizione geografica di Taiwan che schiuderebbe definitivamente la proiezione cinese sul Pacifico all’industria di semiconduttori di cui Taipei è leader e che rappresenta una risorsa decisiva a fini tanto commerciali che militari.

Oltre alla tenuta invasione esiste tuttavia un’altra strada, più silenziosa, che potrebbe smuovere le acque in modo ancora più insidioso di stivali anfibi e cannoni. L’anno prossimo si vota per le presidenziali di Taiwan e uno dei partiti, il Kuomintang (Guomindang) proprio di quel Chiang Kai-shek arcinemico dei comunisti, ha adottato una posizione molto più aperta del passato nei confronti della Cina continentale. Qualcuno dice che potrebbe persino aprire per una futura riunificazione, a giudicare dalla visita nella Repubblica popolare di Ma Ying-jeou, ex presidente del Kuomintang, che suona come una specie di sponsorship da parte comunista di questa fazione. E stando ai sondaggi potrebbe esserci un testa a testa tra il Kuomintang ed il Partito Progressista Democratico dell’attuale presidente Tsai Ing-wen, il cui viaggio negli Stati Uniti di questi giorni è stato il casus belli delle grandi esercitazioni militari contro l’isola. In caso di un percorso politico di questo tipo sarebbe quasi impossibile bloccare un avvicinamento tra le due sponde.

Fantapolitica o meno resta il fatto di una comunità internazionale in pieno disordine dove la Cina, uno dei pochi elementi apparentemente stabili nel panorama generale, prospera nella millenaria legge del divide et impera che avvantaggia la sua ascesa, spesso senza neppure muovere un dito nello scatenare dinamiche delle quali noi e altre potenze siamo in buona parte responsabili. 

Giappone – Gli spettri di Hiroshima

Liaoning“Anche i vecchi nemici hanno bisogno di trovare pace”. Queste parole sono di Shigeaki Mori, un anziano storico di Hiroshima che ha dedicato trent’anni a cercare informazioni sui prigionieri di guerra americani che come lui si trovavano nella città dove venne sganciata la prima bomba atomica della storia il 6 agosto 1945. Continua a leggere Giappone – Gli spettri di Hiroshima

Cina – In lotta per il libero scambio

Apec reunionL’aspetto forse più curioso dei vertici Apec (Asian-Pacific Economic Cooperation) è l’usanza di far indossare ai leader invitati un abito tipico del luogo in cui si tiene il summit, come fece ad esempio George W. Bush otto anni fa mostrandosi al pubblico con una sgargiante tunica azzurra vietnamita.

Molto più sobria è invece la casacca color vinaccia che Obama, Putin e Xi Jinping hanno dovuto indossare nell’edizione di quest’anno che si è tenuta in Cina. L’appuntamento è significativo non soltanto perché rappresenta una nuova occasione di confronto tra i presidenti americano e russo su molti dossier scottanti (Ucraina, Siria e Iran). L’apparente serafico padrone di casa spera infatti di sfruttare l’evento per anticipare le mosse dell’America e del suo ‘famigerato’ TPP. Continua a leggere Cina – In lotta per il libero scambio

Cina – Un incerto braccio di ferro

rivolta hong kongDopo una settimana di proteste e scontri violenti tra manifestanti e la polizia (più si dice qualche infiltrato delle triadi e simpatizzanti progovernativi) le piazze e le strade di Hong Kong si apprestano a tornare lentamente alla normalità.

Ho consapevolmente aspettato di trattare l’argomento in parte perché lo avevo già affrontato tempo fa, quando il malcontento era ancora in gestazione, in parte per non farmi coinvolgere dal facile entusiasmo dei media per una rivolta che i più ingenui ottimisti si auguravano potesse arrivare fino a Tian’anmen. O peggio replicare nel Porto Profumato lo stesso massacro del 1989. Continua a leggere Cina – Un incerto braccio di ferro

Cina – Mercanti di tortura e di censura

Ilham TohtiBastoni per l’elettroshock, mazze chiodate e manette sono diventate l’ultima moda dell’export made in China. È la denuncia di Amnesty International sul pericoloso traffico di strumenti di tortura che sta interessando sempre più aziende cinesi, che si mettono a pubblicizzare i loro prodotti come se fossero un giocattolo o lo smartphone all’ultimo grido.
Nello stesso tempo l’ONG punta il dito su un verdetto giudiziario che fa il paio con l’argomento, perché si è appena conclusa la triste vicenda del professore uiguro Ilham Tohti. Un esito il suo che risponde purtroppo alle peggiori attese.

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Cina – Duello tra ombre rosse

20140715-173143-63103731.jpgPiù di 300 persone appartenenti al mondo della politica o dell’imprenditoria sotto indagine e un tesoro immenso di 90 miliardi di yuan (circa 14 miliardi di dollari) messo sotto sequestro dalle autorità. Questi numeri impressionanti descrivono quello che si candida tranquillamente ad essere il più grande scandalo di corruzione nella storia della Cina comunista, ma anche un terremoto politico di proporzioni mai viste.
A prima vista l’evento risponderebbe alla lotta anticorruzione promessa dal nuovo presidente cinese Xi Jinping per ridare dignità ad un partito che dopo sessant’anni di regno ininterrotto sta diventando sempre meno attraente per le masse. Ma guardando a fondo si possono intravedere dei retroscena molto più interessanti, a cominciare dal protagonista il cui nome non viene mai fatto ufficialmente: Zhou Yongkang.

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Cina – Il fascino tormentato del Dragone

20140625-182303-66183314.jpgQuando il 1 luglio 1997 la città di Hong Kong ritornò sotto sovranità cinese dopo oltre un secolo di dominio britannico, alla popolazione locale era stata data la garanzia che l’isola avrebbe mantenuto un tipo d’istituzioni diverso rispetto a quello mono partitico della Repubblica popolare cinese.
La coesistenza tra un governo non eletto e uno più liberale, riassunto con la celebre frase ‘un paese, due sistemi’, si sarebbe dovuto mantenere fino al 2047, lasciando non pochi dubbi sul futuro della democrazia dell’isola una volta superata questa scadenza. In realtà, a nemmeno dieci anni dall’entrata in vigore dell’accordo, esso ha già dato i primi segni di cedimento, tanto che il prossimo 1 luglio si terrà ad Hong Kong una grande manifestazione per difendere il suffragio universale. Continua a leggere Cina – Il fascino tormentato del Dragone

Vietnam, Cina – Renzi a caccia d’Oriente

20140611-174234-63754157.jpgDopo Obama anche il premier italiano Matteo Renzi si è lanciato in un lungo tour asiatico, con l’obiettivo di concludere affari che in questa parte di mondo si annunciano sempre più promettenti. Del resto i tre paesi interessati dal suo viaggio di quattro giorni sono attori di un certo rilievo, a cominciare dall’arcinota Cina, che si appresterebbe a sorpassare (per qualcuno lo avrebbe già fatto) gli Stati Uniti come prima economia mondiale.
Non sono attori da sottovalutare neppure il Vietnam e il Kazakhistan, paesi che a dispetto degli stereotipi e dell’apparente marginalità che continuano ad accompagnarli nell’immaginario occidentale stanno guadagnando terreno nelle classifiche mondiali. Ma perché Renzi ha scelto proprio questi due paesi rispetto a nomi più blasonati come India, Giappone o Corea del Sud. Continua a leggere Vietnam, Cina – Renzi a caccia d’Oriente

Giappone – Comandante Abe

20140516-161809.jpgSi calcola che nell’ultimo anno il Giappone abbia destinato il 1% del PIL alle spese militari. Detto così sembra poco, ma in termini numerici stiamo parlando di ben 48 miliardi di dollari, all’incirca 12 in meno della Francia ma quasi 20 più dell’Italia o della Corea del Sud. Dati che collocano questo paese all’ottavo posto tra le nazioni che spendono di più in termini di budget militare.
Eppure ci sono altri dati che controbilanciano pesantemente una forza militare che al primo ministro Shinzo Abe sta sempre più stretta. Ciò soprattutto a causa della Costituzione pacifista imposta al Giappone dopo la sua sconfitta nella seconda guerra mondiale, un argomento che il premier nipponico ha fatto tornare alla ribalta con grave disappunto dei suoi vicini, sapendo tuttavia di poter anche contare su alleati di primo livello.

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Cina – Il governo all’attacco di Boxun

20140513-172119.jpgQualcuno lo definisce un modello per il giornalismo indipendente e chi uno strumento in mano agli americani per scatenare una ‘primavera cinese’. Si chiama Boxun, sito web fondato da Meicun Meng nel 2000 con sede nello Stato americano del Nord Carolina. Con il passare degli anni e di cospicue donazioni di organizzazioni no-profit, il sito viene sempre più consultato come una fonte alternativa sugli eventi politici e sociali in Cina, dove l’informazione sconta ancora numerosi limiti.
Il governo di Beijing (Pechino) ovviamente ha già bandito il sito da qualche anno e ha arrestato diversi suoi collaboratori con l’accusa di agire contro gli interessi del paese. L’ultimo ad essere finito nelle mani delle autorità si firmava come ‘Feixiang’ e la sua storia, iniziata a circolare come succede spesso in Cina parecchi giorni dopo i fatti, ha sollevato un polverone mediatico che arriva a tirare in ballo la stessa credibilità del sito. Continua a leggere Cina – Il governo all’attacco di Boxun