L’aspetto forse più curioso dei vertici Apec (Asian-Pacific Economic Cooperation) è l’usanza di far indossare ai leader invitati un abito tipico del luogo in cui si tiene il summit, come fece ad esempio George W. Bush otto anni fa mostrandosi al pubblico con una sgargiante tunica azzurra vietnamita.
Molto più sobria è invece la casacca color vinaccia che Obama, Putin e Xi Jinping hanno dovuto indossare nell’edizione di quest’anno che si è tenuta in Cina. L’appuntamento è significativo non soltanto perché rappresenta una nuova occasione di confronto tra i presidenti americano e russo su molti dossier scottanti (Ucraina, Siria e Iran). L’apparente serafico padrone di casa spera infatti di sfruttare l’evento per anticipare le mosse dell’America e del suo ‘famigerato’ TPP. Continua a leggere Cina – In lotta per il libero scambio→
Dopo una settimana di proteste e scontri violenti tra manifestanti e la polizia (più si dice qualche infiltrato delle triadi e simpatizzanti progovernativi) le piazze e le strade di Hong Kong si apprestano a tornare lentamente alla normalità.
Ho consapevolmente aspettato di trattare l’argomento in parte perché lo avevo già affrontato tempo fa, quando il malcontento era ancora in gestazione, in parte per non farmi coinvolgere dal facile entusiasmo dei media per una rivolta che i più ingenui ottimisti si auguravano potesse arrivare fino a Tian’anmen. O peggio replicare nel Porto Profumato lo stesso massacro del 1989. Continua a leggere Cina – Un incerto braccio di ferro→
Posti di blocco ovunque, migliaia di poliziotti sulle strade e persino l’interruzione temporanea dei servizi cellulari. Non si direbbe proprio un clima favorevole per celebrare il 67º anniversario dell’indipendenza del Pakistan dal dominio britannico e probabilmente questa giornata non sarà ricordata come il momento di festa che dovrebbe essere.
La tensione politica cresciuta in questi ultimi giorni ha alzato infatti lo stato di allerta a livelli preoccupanti, tanto che qualcuno teme l’eventualità di un colpo di stato militare, com’è avvenuto già in passato con tre golpe riusciti (1958, 1977 e 1999) e altrettanti falliti. Esiste davvero il rischio? Ma soprattutto cosa sta succedendo a Islamabad e dintorni che suscita così tanta preoccupazione? Continua a leggere Pakistan – Anniversario di tensione→
Più di 300 persone appartenenti al mondo della politica o dell’imprenditoria sotto indagine e un tesoro immenso di 90 miliardi di yuan (circa 14 miliardi di dollari) messo sotto sequestro dalle autorità. Questi numeri impressionanti descrivono quello che si candida tranquillamente ad essere il più grande scandalo di corruzione nella storia della Cina comunista, ma anche un terremoto politico di proporzioni mai viste.
A prima vista l’evento risponderebbe alla lotta anticorruzione promessa dal nuovo presidente cinese Xi Jinping per ridare dignità ad un partito che dopo sessant’anni di regno ininterrotto sta diventando sempre meno attraente per le masse. Ma guardando a fondo si possono intravedere dei retroscena molto più interessanti, a cominciare dal protagonista il cui nome non viene mai fatto ufficialmente: Zhou Yongkang.
Urne paracadutate dagli elicotteri nei villaggi o consegnate dai motoscafi per centinaia di isole, non dimenticando quelle che sono state trasportate a dorso di cavallo tra i sentieri montuosi più impervi. C’è da farsi venire il mal di testa vedendo come funziona la terza (probabilmente la più complessa a livello logistico) democrazia del mondo: l’Indonesia.
Il paese-arcipelago – 17.000 le isole che lo compongono – questa settimana ha chiamato al voto più di cento milioni di elettori per eleggere il suo nuovo presidente. La sfida vede confrontarsi il governatore di Giacarta Joko Widodo e l’ex militare Prabowo Subianto, due uomini che nella giovane democrazia indonesiana hanno polarizzato il paese come non mai. Ciò perché sono l’incarnazione di valori molto diversi tra loro che potrebbero determinare non solo il futuro politico dell’Indonesia, ma quello dell’assetto regionale.
Quando il 1 luglio 1997 la città di Hong Kong ritornò sotto sovranità cinese dopo oltre un secolo di dominio britannico, alla popolazione locale era stata data la garanzia che l’isola avrebbe mantenuto un tipo d’istituzioni diverso rispetto a quello mono partitico della Repubblica popolare cinese.
La coesistenza tra un governo non eletto e uno più liberale, riassunto con la celebre frase ‘un paese, due sistemi’, si sarebbe dovuto mantenere fino al 2047, lasciando non pochi dubbi sul futuro della democrazia dell’isola una volta superata questa scadenza. In realtà, a nemmeno dieci anni dall’entrata in vigore dell’accordo, esso ha già dato i primi segni di cedimento, tanto che il prossimo 1 luglio si terrà ad Hong Kong una grande manifestazione per difendere il suffragio universale. Continua a leggere Cina – Il fascino tormentato del Dragone→
Dopo Obama anche il premier italiano Matteo Renzi si è lanciato in un lungo tour asiatico, con l’obiettivo di concludere affari che in questa parte di mondo si annunciano sempre più promettenti. Del resto i tre paesi interessati dal suo viaggio di quattro giorni sono attori di un certo rilievo, a cominciare dall’arcinota Cina, che si appresterebbe a sorpassare (per qualcuno lo avrebbe già fatto) gli Stati Uniti come prima economia mondiale.
Non sono attori da sottovalutare neppure il Vietnam e il Kazakhistan, paesi che a dispetto degli stereotipi e dell’apparente marginalità che continuano ad accompagnarli nell’immaginario occidentale stanno guadagnando terreno nelle classifiche mondiali. Ma perché Renzi ha scelto proprio questi due paesi rispetto a nomi più blasonati come India, Giappone o Corea del Sud. Continua a leggere Vietnam, Cina – Renzi a caccia d’Oriente→
1951, 1957, 1958, 1971, 1976, 1977, 1991, 2006 e ora anche il 2014. Sono le date dei nove colpi di Stato (quelli riusciti) che hanno accompagnato il lunghissimo regno di Rama IX, al secolo Bhumibol Adulyadej, sovrano della Thailandia e unica figura politica ad essere uscita sempre indenne dalle continue turbolenze politiche del suo paese.
Ancora una volta l’anziano re pare essere al sicuro dal nuovo golpe militare che ha travolto il paese del sudest asiatico da alcuni giorni, chiudendo una fase di gravissimo disordine iniziata alla fine dell’anno scorso con il braccio di ferro tra l’ex premier Yingluck Shinawatra e i manifestanti guidati da Suthep Thaugsuban e altri leader dell’opposizione. L’unica differenza con il passato è che i generali thailandesi questa volta potrebbero dover fare i conti con dei rivali politici molto più agguerriti del previsto.
Si chiama “Potere della Siberia”, ma non è l’incantesimo di qualche improbabile eroe della tundra. Si tratta invece del nome del primo gasdotto che dai giacimenti del lago Bajkal consentirà alla Russia, a partire dal 2017 secondo le stime più ottimistiche, di rifornire del suo metano un cliente che non passa certo inosservato: la Cina. A questo riguardo proprio oggi i due paesi hanno firmato a Shanghai un accordo commerciale della durata trentennale, il quale era atteso dal lontano 2004 e ha fatto discutere schiere di analisti per le conseguenze che è destinato a portare negli equilibri energetici e soprattutto geopolitici dell’area.
Si calcola che nell’ultimo anno il Giappone abbia destinato il 1% del PIL alle spese militari. Detto così sembra poco, ma in termini numerici stiamo parlando di ben 48 miliardi di dollari, all’incirca 12 in meno della Francia ma quasi 20 più dell’Italia o della Corea del Sud. Dati che collocano questo paese all’ottavo posto tra le nazioni che spendono di più in termini di budget militare.
Eppure ci sono altri dati che controbilanciano pesantemente una forza militare che al primo ministro Shinzo Abe sta sempre più stretta. Ciò soprattutto a causa della Costituzione pacifista imposta al Giappone dopo la sua sconfitta nella seconda guerra mondiale, un argomento che il premier nipponico ha fatto tornare alla ribalta con grave disappunto dei suoi vicini, sapendo tuttavia di poter anche contare su alleati di primo livello.