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Turchia – La rivoluzione mancata

Si credeva imminente la fine di un’era, ma le elezioni turche di domenica 14 maggio hanno detto picche (o quasi). Nelle settimane precedenti al voto presidenziale e parlamentare la maggior parte degli analisti dava infatti il presidente Recep Tayyip Erdogan quasi spacciato di fronte al consenso crescente per il suo rivale, il leader dell’opposizione Kemal Kilicdaroglu, appoggiato da una cacofonia di partiti che vanno dal centrosinistra all’estrema destra.

Alla fine invece la valanga contro Erdogan non c’è stata che, anzi. ha quasi sfiorato la vittoria. Essendo arrivato a poco più del 49% (per chiudere la partita bisognava superare il 50%) la sfida proseguirà con un secondo turno il 28 maggio che vede adesso come favorito lo stesso presidente in carica. Ai vertici della politica da vent’anni suonati – per metà da primo ministro e l’altra metà da presidente – Erdogan ha dunque buone probabilità di continuare a rimanere in sella, nonostante i problemi diffusi nel paese tra migranti, crisi economica e gestione pasticciata dei soccorsi nelle aree terremotate lo scorso febbraio. 

Persino un’eventuale vittoria di Kilicdaroglu al secondo turno potrebbe non essere sufficiente a segnare la svolta tanto attesa dai liberali, dato che le elezioni parlamentari hanno visto comunque il trionfo della coalizione pro-Erdogan. Questa ha raccolto oltre 300 dei 600 seggi in palio, mentre gli avversari si dovranno accontentare di poco più di 200. Di conseguenza il futuro equilibrio politico della Turchia avrà davanti a sé due scenari entrambi poco incoraggianti: da un lato, in caso di conferma di Erdogan, un potere quasi assoluto per l’allineamento tra il Presidente e la Grande Assemblea Nazionale (il nome del Parlamento turco); dall’altro, se vincesse Kilicdaroglu, vi sarebbe una difficile convivenza tra una camera legislativa e un capo dello Stato di differente espressione politica. 

Di fronte a questo risultato molto incerto la Borsa di Istanbul è ovviamente in caduta libera, poiché le prospettive si configurano fosche qualunque sia il risultato. Apparentemente estranea a queste ed altre considerazioni pare essere la stessa opinione pubblica turca, che ha votato in massa (oltre l’87% di affluenza) per questo appuntamento elettorale e proprio con questa partecipazione ha forse contribuito a far reggere l’urto ad Erdogan. Questi ha goduto persino di ampi consensi nelle stesse zone terremotate che hanno scatenato innumerevoli polemiche contro gli interventi del governo, giudicati insufficienti e con gravi ritardi. Viene da chiedersi come sia possibile che il presidente turco goda ancora di tanto seguito malgrado le difficoltà che si sono moltiplicate negli ultimi anni.

In parte ciò è dovuto alla paura di molti suoi connazionali di interrompere la lunga, per quanto onerosa in termini di democrazia e stato di diritto, stabilità sotto l’egemonia di Erdogan e del suo partito AKP. Bisogna ricordare che la Repubblica turca, dalla sua nascita sulle ceneri dell’impero ottomano, ha vissuto decenni di disordini e colpi di stato militari che hanno tenuto la società sotto ostaggio per almeno mezzo secolo. Questa stagione ha avuto fine proprio con Erdogan, all’inizio salutato come una promessa dalla comunità internazionale, specie occidentale, dove si sperava che avrebbe modernizzato e fatto progredire il proprio paese al punto da farlo persino entrare nell’Unione Europea.

Col passare degli anni, invece, la Turchia ha deluso tali aspettative e ha visto l’ascesa di un ordinamento basato sulla filosofia islamista dell’AKP, che è diventato sempre più conservatore e intollerante per chi non si allinea ad essa. Questo ha causato non poche tensioni che sono sfociate in episodi anche preoccupanti, come la dura repressione delle proteste di Gezi Park nel 2013 contro la decisione di costruire un centro commerciale al posto del parco in questione. Ancor più allarmante fu il tentato golpe nel 2016 da parte di alcuni generali dell’esercito contro Erdogan, che si è risolto però in un fallimento e nel conseguente arresto di una marea di oppositori anche al di fuori della cerchia militare. 

Da allora l’idea di una Turchia democratica ed affine all’Occidente è sfumata fino ad evaporare, tanto che quasi nessuno crede più che il percorso di adesione all’Unione europea possa riprendere o abbia solo senso riparlarne. Rivolte le spalle all’ovest, la Turchia ha preferito perseguire una politica internazionale controversa verso est, da alcuni tacciata da ‘neo-ottomanesimo’, nel tentativo di recuperare una qualche sfera d’influenza in Medio Oriente come ai tempi del sultano. In certi casi sembra si punti addirittura a recuperare qualche pezzetto di terra del vecchio impero, vedi il ruolo turco nella guerra civile siriana, dove l’esercito di Ankara ha occupato di fatto una parte del territorio siriano con la scusa di proteggere i ribelli, con cui è alleato, dalle rappresaglie di Assad.

Stretta tra una politica interna che stenta ad uscire dall’equilibrio costruito in vent’anni di egemonia di Erdogan e una politica estera ambigua nell’essere contemporaneamente nella NATO, di nutrire ambizioni mediorientali e coltivare rapporti tutto sommato cordiali con le rampanti autocrazie russe e cinesi la Turchia di Erdogan è un attore a dir poco imprevedibile. E da come si sono messe le cose con queste elezioni non sembra che il quadro sia destinato a cambiare almeno a medio termine.

Sudan – La pedina di un nuovo Grande gioco

Parallelamente al gran clamore che ha suscitato la tanto attesa telefonata del presidente Xi Jinping al suo omologo ucraino Zelens’kyj, in Africa si sta consumando una delle tante crisi che quasi passa sotto silenzio per quanto l’opinione pubblica è ormai assuefatta ai problemi di questo continente. Stiamo parlando del Sudan, un paese che negli ultimi decenni ha sofferto focolai d’instabilità a non finire: dalla catastrofe del Darfur iniziata con questo secolo alla secessione del Sud Sudan nel 2011, proseguendo con la caduta del dittatore Oman al-Bashir nel 2019 che ha dato vita ad un’effimera democrazia, a sua volta archiviata nel 2021 con l’ennesimo golpe militare. 

Artefici del colpo di Stato sono due ex fedeli di al-Bashir che hanno unito le forze per l’occasione: il generale Abdel Fattah al-Burhan divenuto il presidente di fatto del Sudan e il leader delle Forze di Supporto rapido (Rsf) di Mohammed Dagalo, Oggetto della contesa la richiesta da parte del primo che le milizie Rsf rientrino nei ranghi dell’esercito, privando così Dagalo della base che potrebbe servire per conquistare a sua volta il potere. Il risultato è una violenza dilagante che ha già causato centinaia di morti e migliaia di sfollati, oltre alla paura che dei ribelli impadronitesi di un laboratorio batteriologico possano diffondere volutamente delle malattie per decimare gli avversari.

La tragica vicenda fa riflettere ancor di più per gli interessi che stanno dietro alle fazioni. Mentre al-Burhan è sostenuto dal presidente egiziano al-Sisi, che vorrebbe un alleato-gemello sulla propria frontiera meridionale, il rivoltoso Dagalo (conosciuto anche come piccolo Mohammed) vanterebbeuna schiera di sponsor che vanno dalla Russia di Putin agli Emirati arabi, fino al generale libico Haftar. Un attore particolarmente rilevante nel presente scenario sono le famigerate milizie russe Wagner di Evgenij Prigozhin, tristemente note nel conflitto ucraino, e che si mantengono in una posizione ambigua tra al-Burhan e Dagalo.

In realtà, da molti anni questi mercenari stanno operando in Africa, collaborando con vari generali e governi africani (Algeria, Libia, Mali, Repubblica Centraficana e Sudan solo per citarne alcuni) per proteggerne gli esponenti e portare avanti gli interessi della madrepatria russa. Talvolta hanno dovuto battere in ritirata, come in Mozambico, ma spesso hanno attecchito in profondità diventando una sorta di potere parallelo di cui i capi locali non possono fare più a meno per rimanere a galla.La presenza del gruppo Wagner sta impensierendo gli Stati Uniti, i quali stanno correndo ai ripari prima che sia troppo tardi.

Nella situazione generale, infatti, viene messa a nudo la quasi irrilevanza occidentale nelle dinamiche che stanno interessando l’Africa di oggi. Dalla fine della guerra fredda, la politica americana ed europea verso il continente africano ha oscillato tra neocolonialismo, paternalismo e umanitarismo strappalacrime che dispensava palliativi che, per quanto nobili, risultavano comunque insufficienti per risolvere i problemi strutturali che continuano ad affliggerlo. Ancora più paradossale era la linea che predicava aiuti economici in cambio riforme democratiche ‘calate dall’alto’, mentre il fine principale delle grandi potenze benigne era quello di avere una stabilità sufficiente per continuare a fare affari. Una stabilità/tranquillità che nella maggior parte dei casiveniva garantita da governi oligarchici e cleptocratici, con buona pace del progresso democratico.

Decenni dopo la speranza di ‘redimere’ l’Africa e i nostri peccati coloniali si è infranta con una situazione a dir poco esplosiva (guerre, rivolte, catastrofi ambientali ed umanitarie) che ha visto l’influenza occidentale sbriciolarsi in modo preoccupante. Ne abbiamo un esempio con le primavere arabe dello scorso decennio, che hanno lasciato eredità tutt’altro che incoraggianti in Tunisia, Libia ed Egitto; lo vediamo con la Francia, che ha ormai archiviato le velleità della Françafrique ed è rimasta al margine in molti territori appartenuti al suo impero coloniale, Mali in testa.

Un mercenario del gruppo Wagner. Fonte: Facebook

Visto che i momenti di crisi sono croce di chi è in decadenza e delizia di chi è in ascesa, non potevano mancare gli attori pronti ad entrare nel vuoto che si è creato. E in cima a tutti ci sono la Russia e la Cina, che sembrano offrire quella stabilità e benessere (a vantaggio di pochi, naturalmente) tanto promessi da un Occidente le cui intenzioni scontano sempre del loro passato da padroni sfruttatori. Non lo fanno certo in modo disinteressato, come poteva sembrare ai tempi dell’URSS per solidarietà ai popoli oppressi, in quanto l’Africa è piena di risorse minerarie da sfruttare e di un potenziale economico tutto da scoprire. La reazione americana, non a caso, pare quella di chi si è reso conto che ad aver trascurato troppo questa parte del mondo se la sta facendo scippare da qualcun altro.

L’Occidente dovrebbe riprendere seriamente l’iniziativa in Africa, non solo in termini di aiuti, ma anche politici che superino il precedente approccio. Pensare che basti introdurre riforme democratiche affinché queste attecchiscano tradisce una superficialità che è costata già cara nel Grande Medio Oriente (Iraq, Afghanistan) travolto dalla forza militare americana, venuta meno la quale, il sogno democratico di quei paesi si è semplicemente vaporizzato. 

Obiettivo prioritario per l’Africa è quello di favorire lo sviluppo economico, il rafforzamento e l’espansione delle infrastrutture esistenti (assolutamente inadeguate per il continente) e gli investimenti che consentano alla società di evolvere e prosperare ad un livello accettabile per la dignità umana, tentando per quanto possibile di contenere la violenza e l’odio tra comunità che ancora faticano a riconoscersi come parte di uno stesso Paese. 

Soltanto arrivati a questo risultato e con un lavoro paziente di collaborazione e di soft power si può sperare di iniziare a sensibilizzare la popolazione e le istituzioni su modelli di governance che siano più vicini agli standard democratici. Se invece vogliamo rassegnarci all’idea di un continente irrecuperabile e, in fondo, ancora lontano dalla nostra quotidianità (ma neanche troppo visti i crescenti flussi migratori di persone che fuggono la propria miseria), questo finirà per diventare l’enorme feudo di potenze che, non cambiando di una virgola le disuguaglianze in Africa, la useranno per rafforzarsi e portare avanti il ridimensionamento di un Occidente che risulta qui già molto evidente.

Il bivio dell’intelligenza artificiale

La foto vincitrice del concorso Sony creata dal fotografo Boris Eldagsen

Cosa sarebbe l’essere umano senza creatività o la semplice fantasia? Veicolo spesso irrazionale, ma comunque fondamentale nella nostra esistenza che può essere tacciato come vano trastullo mentale, ma talvolta ci aiuta a riflettere sulla realtà attraverso tali visioni e punti di vista alternative.Rimanendo in un discorso puramente ludico, a quanti di noi sono balenate delle idee che avremmo voluto tanto rappresentare ma, a meno di non essere dei bravi disegnatori o artisti, ci trovavamo costretti a farle ammuffire nei meandri della nostra testa?

Adesso non è più così, perché a venire in soccorso di questo ‘potenziale inespresso’ ci pensa l’intelligenza artificiale generativa, ossia dei programmi (conosciuti anche come Bot come il celebre Midjourney) a cui basta ricevere determinate istruzioni per trasformare il sogno in realtà tangibile (immagini, video, suoni e forse sarà possibile persino avere delle conversazioni impossibili con Dante, Michelangelo o Carlomagno).

Negli ultimi tempi avrete di sicuro notato che si stanno moltiplicando gli articoli e i servizi che parlano d’intelligenza artificiale, su cui stanno investendo montagne di denaro le principali aziende del settore come Microsoft, Meta di Zuckenberg o Google. Spesso si racconta dei risultati straordinari che hanno raggiunto questi strumenti, contribuendo anche a semplificare operazioni che in passato chiedevano molto più tempo e risorse sia fisiche che intellettuali. Parallelamente al fascino che accompagna sempre l’innovazione, vengono alla luce gli inevitabili usi distorti che possono funestare ogni nuova tecnologia.

Alcuni esempi strappano un sorriso, come ad esempio le foto di papa Francesco con un cappotto di marca ribattezzato per l’occasione Monclero oppure Meghan e Harry fortemente ingrassati dopo essersi trasferiti negli Stati Uniti. Altri lasciano un misto di curiosità e cringe, si pensi alle foto ottocentesche di Lincoln o Garibaldi che si animano mettendosi a cantare Gigi d’Alessio. E vi sono, infine, quelli che fanno pensare seriamente sull’argomento, fra cui le foto di Trump che viene arrestato in malo modo dagli agenti di polizia o i filmati di Obama o Putin che pronunciano frasi che non hanno mai detto. L’I.A. riesce a costruire contenuti del genere con un’approssimazione sufficientemente credibile e col passare del tempo il risultato diventerà di sicuro ancora più realistico e quindi difficile da smascherare.

L’immagine modificata di Papa Francesco con il cappotto Moncler

Gli aspetti controversi dell’I.A. generativa sono stati recentemente sollevati in modo clamoroso anche da un fotografo tedesco, Boris Eldagsen, che ha vinto il concorso Sony World Photography Awards con una foto che, in un secondo momento, ha rivelato essere un falso creato da un Bot. La mossa di Eldagsen ha imbarazzato fortemente gli organizzatori che hanno subito rimosso la foto, ma il fotografo non aveva alcuna intenzione di vincere barando, anzi la sua mossa è stata studiata proprio per aprire un serio dibattito sulla strisciante contaminazione tra realtà e I.A.

Dai casi esposti qui sopra si può trarre qualche importante considerazione, tralasciando l’abusato discorso sull’eventualità che essa possa prendere il sopravvento sull’essere umano che richiederebbe un articolo a parte, concentrandoci invece sull’impatto che essa avrà nella nostra società e nelle nostra quotidianità. L’intelligenza artificiale generativa ha senza dubbio delle ricadute pratiche da non sottovalutare e semplificheranno molte procedure e lavori in modi mai pensati prima, aprendo la strada a nuove interazioni e potenzialità che nemmeno potevamo immaginare. Per contro, agli inevitabili abusi di questa tecnologia che devono essere oggetto di forte attenzione e regolamentazione non può far riscontro una sterile reazione luddista, la quale rifiutano in toto l’innovazione semplicemente perché, come tutte le cose, essa comporta sia vantaggi che problemi. 

Proprio sui problemi non dobbiamo dimenticare che la causa principale degli stessi non è l’oggetto in sé, ma l’utilizzo che ne fanno uomini mossi da ragioni e volontà irrazionali o, peggio, criminose. Purtroppo nella società soggetti di questo tipo non sono mai mancati e mai mancheranno, caricando le istituzioni del compito non facile di proteggere il cittadino da tali mistificazioni. Ciò va fattoinnanzitutto regolamentando uno strumento ancora nuovo che deve essere reso facilmente distinguibile dai contenuti reali, siano questi una foto, un video o un audio e perseguendo i colpevoli che li usano in mala fede. Non meno fondamentale è coinvolgere il mondo dell’istruzione e sostenere valori che formino persone in grado di ragionare su quello che stanno vedendo, leggendo ed ascoltarlo invece di assorbirlo passivamente come spugne o amebe (termini peraltroquasi sinonimi). 

Non dobbiamo dimenticare, infatti, che nelle personalità con profonde difficoltà a capire il mondo complesso di oggi e senza prospettiva avanza inesorabile il rifiuto a voler affrontare la realtà con maturità ed intelligenza semplicemente perché lo si considera inutile. E in questo vuoto interiore sipuò insinuare in modo irresistibile la tentazione di adattare il mondo esterno alla propria visione disincantata e precaria, dove tutto è possibile e nulla è certo. L’intelligenza artificiale con i suoi bot iperrealistici è lì, pronta ad assecondare questo impulso primordiale all’ennesima potenza e, a meno di non contenere in tempo a questa minaccia a dir poco cruciale, a demolire le basi stesse di ogni scienza e della stessa democrazia.

Taiwan – il divide et impera alla pechinese

Emmanuel Macron, XI Jinping e Ursula con del Leyen. Fonte: Imagoeconomica

In questi tempi di interminabili crisi (ribattezzate da papa Francesco come una sorta di Terza guerra mondiale, sebbene più frammentata e ambigua delle due precedenti) stanno suscitando preoccupazione le provocazioni militari della Cina comunista contro l’isola di Taiwan, l’ultima delle quali ha visto un dispiegamento di numerosi aerei e navi, compresa la portaerei Shandong, fiore all’occhiello dell’ambiziosa marina di Xi Jinping. Ad aggiungere del pepe alla vicenda vi è il fatto che nonostante si trattasse di una simulazione, i mezzi impiegati fossero anche armati, come per lanciare il messaggio: “Attenzione, che qui non stiamo proprio scherzando”.

Molti si chiedono perché la Cina insista a fare pressione su quest’isoletta tra il Mare Cinese orientale e meridionale, tracciando un prevedibile parallelismo con l’aggressione russa all’Ucraina. In realtà vi sono sia punti in comune che importanti differenze con quest’ultimo scenario. 

Prima di tutto dietro alla contesa vi è un trascorso storico molto ingarbugliato rispetto ai rapporti comunque turbolenti tra Mosca e Kiev, a cominciare dal fatto che il governo di Taipei non è riconosciuto che da una manciata di paesi nel mondo, ma da nessuna grande potenza. Taiwan deve la sua indipendenza al fatto che all’indomani della sconfitta giapponese che aveva quasi conquistato l’intera Cina, quest’ultima era martoriata da decenni di aggressioni straniere e da un’ingovernabilità endemica che l’avevano trasformata in un campo di battaglia tra varie fazioni interne. Gli ultimi duellanti in ordine di tempo erano i comunisti di Mao Zedong e i nazionalisti di Chiang Kai-shek (Jiang Jieshi) che negli anni quaranta, dopo essere stati alleati contro l’invasore nipponico, si contesero ferocemente il dominio del paese. Alla fine i nazionalisti persero la lotta e fuggirono in massa a Taiwan, dove poterono godere della protezione americana e per molti anni della stessa debolezza dei cinesi comunisti che non erano semplicemente in grado di sbarcare sull’isola per occuparla.

Per anni la comunità internazionale riconobbe il governo di Taiwan come l’unica Cina legittima, con tanto di seggio permanente al Consiglio di sicurezza dell’ONU che la rendeva un soggetto alla pari con i giganti vincitori della Seconda guerra mondiale. Le cose cambiarono improvvisamente negli anni ’70, quando il presidente americano Richard Nixon e il suo segretario di Stato Henry Kissinger decisero di riconoscere la Cina comunista al posto di questa nazionalista, che perse poco dopo anche il suo seggio alle Nazioni Unite. Questa mossa, considerata da molti analisti un capolavoro strategico, mirava a mettere in difficoltà l’Unione sovietica, che stava vivendo una stagione di forte conflittualità (vi fu persino una scaramuccia di confine nel 1969) con il suo vecchio pupillo maoista e si ritrovò così a dover far fronte tanto agli americani che ai cinesi.

Oggi questo triangolo pare rovesciato, o meglio è ritornato ad essere quello che era ai primi anni ’50 del secolo scorso, quando Russia (allora URSS) e Cina facevano fronte comune contro le potenze capitaliste (leggi ora Occidente collettivo), Stati Uniti in testa. Come allora ogni mossa ha effetti significativi sull’enorme scacchiere che va da Washington a Vladivostok, passando per Taiwan. Si pensi alla crisi ucraina che sta divorando enormi risorse occidentali nella vaga speranza di sconfiggere lo zar Putin, mentre rischiano di assottigliarsi quelle che potrebbero essere impiegate per contenere la Cina. 

Rimanendo nella sua comoda ambiguità su quanto avviene in Europa, Xi Jinping sta guadagnando punti da tutte le parti, anche nei confronti di Mosca, che sta scivolando in una condizione di subordinazione verso Pechino. E che dire della recentissima missione in Cina del tandem Macron-von der Leyen, iniziata col timido rimbrotto della presidente della Commissione Ue contro le minacce di Pechino a Taiwan e la richiesta della tanto promessa ma mai concretizzata telefonata di Xi a Zelens’kyj? Una volta che Ursula è volata via, Macron, divenuto ormai il politico più potente in Europa dopo l’uscita di scena della Merkel, ha continuato il suo tour in Cina facendo affari per l’esercito di industriali che lo ha accompagnato. E, ciliegina sulla torta, sfoggiando pure qualche richiamo gollista sulla volontà europea (leggi soprattutto francese, per stuzzicare comprensibilmente un elettorato ancora nervoso per la questione pensioni) di non essere vassalla dell’America, per la gioia dell’ospite cinese che vede nell’allontanamento delle due sponde dell’Atlantico il pane delle sue aspirazioni globali.

Nel bel mezzo di questa confusione nella famiglia occidentale si profila dunque possibile un’invasione cinese senza colpo ferire? A parte l’imprevedibilità di un simile colpo di mano, non potendo mai prevedere del tutto come possa degenerare una crisi del genere, negli ultimi anni gli strateghi militari si sono sbizzarriti sul capire se sia finanche un’operazione fattibile. C’è chi dice che la Cina potrebbe gettarsi in un pantano simile a quelli vissuti nell’America nel Grande Medio Oriente (Afghanistan e Iraq docet) e non mancano neppure quelli che paventano le difficoltà per gli Stati Uniti e i suoi alleati di bloccare in tempo l’eventuale D-Day cinese. 
Di sicuro la Cina di XI non rinuncerà mai a recuperare questa ‘provincia ribelle’, non solo per ragioni di prestigio per la leadership comunista, ma per una serie di ragioni non indifferenti che vanno dalla posizione geografica di Taiwan che schiuderebbe definitivamente la proiezione cinese sul Pacifico all’industria di semiconduttori di cui Taipei è leader e che rappresenta una risorsa decisiva a fini tanto commerciali che militari.

Oltre alla tenuta invasione esiste tuttavia un’altra strada, più silenziosa, che potrebbe smuovere le acque in modo ancora più insidioso di stivali anfibi e cannoni. L’anno prossimo si vota per le presidenziali di Taiwan e uno dei partiti, il Kuomintang (Guomindang) proprio di quel Chiang Kai-shek arcinemico dei comunisti, ha adottato una posizione molto più aperta del passato nei confronti della Cina continentale. Qualcuno dice che potrebbe persino aprire per una futura riunificazione, a giudicare dalla visita nella Repubblica popolare di Ma Ying-jeou, ex presidente del Kuomintang, che suona come una specie di sponsorship da parte comunista di questa fazione. E stando ai sondaggi potrebbe esserci un testa a testa tra il Kuomintang ed il Partito Progressista Democratico dell’attuale presidente Tsai Ing-wen, il cui viaggio negli Stati Uniti di questi giorni è stato il casus belli delle grandi esercitazioni militari contro l’isola. In caso di un percorso politico di questo tipo sarebbe quasi impossibile bloccare un avvicinamento tra le due sponde.

Fantapolitica o meno resta il fatto di una comunità internazionale in pieno disordine dove la Cina, uno dei pochi elementi apparentemente stabili nel panorama generale, prospera nella millenaria legge del divide et impera che avvantaggia la sua ascesa, spesso senza neppure muovere un dito nello scatenare dinamiche delle quali noi e altre potenze siamo in buona parte responsabili. 

L’America da tesi ad antitesi

Dopo mesi di attesa la tanto annunciata incriminazione di Donald Trump è arrivata. Si parla di oltre 30 capi d’accusa che vanno dal falso in bilancio alla frode elettorale, passando per la cospirazione contro i cittadini fino alla detenzione di documenti segreti) accusa rivolta anche ad altri politici illustri, compreso l’attuale presidente americano Joe Biden, con la differenza che nel caso di Trump ciò fosse stato fatto deliberatamente).

Per molti, soprattutto di fede repubblicana ma non manca qualche democratico, l’impianto accusatorio non si presenta come particolarmente solido e rafforza l’idea che le vicende giudiziarie del tycoon siano solo un pretesto per sabotargli la campagna elettorale delle presidenziali del 2024. Non è dato ancora sapere quante sono le possibilità che Trump venga condannato, anche se nonostante quello che sta accadendo sembra godere di un consenso sempre molto forte a scapito dei rivali repubblicani, i quali sono costretti ad inseguirlo nei suoi toni apocalittici per recuperare qualche punticino nei sondaggi. 

Comunque stiano o staranno le cose questa prima volta di un ex presidente indagato dalle autorità giudiziarie getta un’ombra molto lunga sulle istituzioni d’Oltreoceano. Da anni ormai la classe dirigente americana non sta dando una buona prova di sé. Conclusa l’era di speranze sempre più deluse di Barack Obama, gli Stati Uniti si sono impantanati in un dibattito pubblico dai toni a dir poco feroci.

Quante volte abbiamo sentito parlare in passato dell’America come il massimo esempio della democrazia occidentale, di questa contrapposizione quasi mitologica tra Repubblicani e Democratici che pareva dovesse riplasmare il globo con le ‘nobili cause’ dell’uno o dell’altro schieramento? Quasi niente di tutto questo è rimasto, a cominciare dal carisma dei leader in corsa. Altro che Lincoln, Roosevelt, Kennedy o Reagan o dei grandi progetti che hanno accompagnato queste figure come il New Deal o il Reaganomics. 

La contesa adesso è tra un candidato in cerca di una rivincita (per non dire vendetta) che non ha mai ammesso la propria sconfitta elettorale ed un presidente in carica che sconta un’età troppo avanzata nel contesto problematico in cui si trova a guidare la nazione più potente del mondo. Ognuno si propone a riflesso dell’altro, nel senso che bisogna votarlo quasi esclusivamente per tenere fuori la fazione avversa, mentre per capire che visione del paese vogliono portare avanti bisogna interpellare quasi un oracolo. 
La conseguenza di questo approccio è che il dibattito politico sta perdendo ogni parvenza di civiltà e si sta trasformando in una lotta senza esclusione di colpi, in cui si demonizza continuamente l’avversario e si frantuma così una società il cui tessuto è già molto sfilacciato per una serie di altre ragioni (economiche, geografiche, ecc.). 

Più che un modello per le democrazie occidentali gli Stati Uniti si stanno tramutando in una specie di antitesi di quello che dovrebbe essere, con i sintomi più esasperati di una degenerazione politica che interessa anche le democrazie europee ed asiatiche in modo più o meno marcato secondo il paese. Tale situazione è in stridente contrasto con lo strombazzato ricompattamento occidentale contro le emergenti autocrazie russe e cinesi, perché più che un’unità d’intenti esso risulta im prevalenza strumentale a fare opposizione contro il comune nemico. 

Se questo redivivo scontro “contro il male” dovesse avere una durata non troppo lunga la “coalizione dei volenterosi” (per riprendere un’espressione cara ai vecchi repubblicani) potrebbe anche reggere in qualche modo, ma col passare del tempo i fattori di disgregazione sopracitati finiranno per avere la meglio fino a mettere a repentaglio l’unità stessa del fronte occidentale.
Per vincere la sfida lanciata dalle potenze revisioniste, le democrazie liberali devono prima di tutto riflettere profondamente su cosa stanno diventando per riuscire prima o poi a guarire da questi mali e a rigenerare il proprio modello. Solo così possono renderlo nuovamente accattivante per quella parte di mondo che si sta ancora facendo strada nella comunità internazionale (Africa in primis). In alternativa il fronte anti occidentale ed antidemocratico è destinato non solo a rafforzare il proprio accerchiamento, ma anche a far breccia in quei (non pochi) paesi già sedotti dalla favola dell’uomo forte e del nazionalismo che renderanno il mondo un posto ben peggiore di quello che lamentiamo oggi.

La Tana riapre!

Cari lettori della Tana,

a cinque anni e mezzo dal mio ultimo articolo ho deciso di ripristinare questo spazio per offrire a chi avrà il piacere di leggere il mio pensiero sui principali avvenimenti di questo Paese e internazionali. Tale progetto nacque oltre dieci anni fa su una piattaforma diversa dall’attuale, spaziando dalla geopolitica al cinema, passando per i videogiochi fino ad una piccola rubrica dedicata ad un racconto storico a puntate. Poi vi fu il salto su WordPress che garantiva una serie di strumenti per costruire un sito molto più bello da vedere ed efficace.

In quel tempo nutrivo la speranza che quest’impegno potesse prima o poi tramutarsi in un’opportunità di realizzazione professionale o comunque in qualcosa che prima o poi potesse evolvere e crescere sia a livello di pubblico che di struttura, contando pure sulla collaborazione di altri ragazzi accomunati dalla stessa passione per il giornalismo.

Da allora di acqua sotto i ponti ne è passata parecchia, come pure le aspirazioni e il contesto personale in cui mi trovo a scrivere oggi. Dismessi i panni del giornalista pubblicista, ormai non sono più nell’ordine da alcuni anni, e dopo aver attraversato dei passaggi non indifferenti sia nell’ambito familiare che lavorativo, gestirò la Tana di Atlante come uno spazio personale senza particolari ambizioni, ma semplicemente per lasciare traccia di ciò che mi ha impressionato e che m’impressionerà nel tempo a venire. Perché il sale della vita, nonché della nostra salute mentale e morale è quello di continuare ad essere curiosi ed interessati ai mondi vecchi e nuovi su cui non dobbiamo mai cessare di riflettere. Buona lettura.

Catalogna: un disastro annunciato

Alla fine il voto c’è stato, nonostante le minacce e i tafferugli che hanno scosso la Catalogna questa prima domenica d’ottobre. Il risultato è anche piuttosto schiacciante con un 90% di preferenze per l’indipendenza dalla Spagna, anche se il numero dei votanti (poco più del 40%) e le modalità non proprio genuine della consultazione daranno un significato controverso a questo verdetto.

Comunque la si pensi quello che emerge dai fatti di ieri è un paese profondamente spaccato e in preda ad una crisi istituzionale senza precedenti che si poteva benissimo evitare o quantomeno contenere.

Il principale imputato di questa catastrofe è stato il premier spagnolo Rajoy, colpevole di aver forzato la situazione contro ogni ragionevolezza. Il suo ostruzionismo alle istanze catalane ha fatto sì che un fenomeno minoritario se non folkloristico come l’indipendentismo prendesse il sopravvento su un più sensato rafforzamento dell’autonomia. Inoltre ha deciso di usare il pugno di ferro non contro dei Black bloc o dei facironosi che volevano solo scatenare violenza come accade talvolta in una manifestazione, ma contro della gente che voleva andare solamente esprimere il proprio pensiero con il voto. Un comportamento di suo incompatibile con l’essenza stessa della democrazia, nutrito forse dall’illusione che si potesse risolvere la questione politica con la forza.

Se Rajoy avesse invece consentito il voto in modo sereno, con un serio dibattito come avvenuto nel Regno Unito con il referendum scozzese del 2014 probabilmente il clima politico non solo sarebbe stato più sereno, ma la maggioranza moderata dei catalani avrebbe valutato con più calma la questione invece di votare spinta dalla rabbia verso un governo che a parole e anche nei fatti sembra voler negare loro la facoltà di esprimersi .

Ora che questo braccio di ferro si è risolto malamente per Madrid a livello politico e soprattutto d’immagine, esso ha creato un pericoloso precedente nel resto del regno, dove non mancano altre comunità (Galizia, Andalusia, per non parlare dei Paesi Baschi) che potrebbero voler imitare l’esempio catalano.

Non è chiaro cosa succederà adesso, se la Catalogna dichiarerà veramente la sua indipendenza nelle prossime ore o se il governo di Madrid deciderà di andarci ancora più duro, magari inviando l’esercito. Di sicuro si è creata una spaccatura profonda, se non insanabile, tra due anime importanti dello stato spagnolo. Tutto questo per una classe politica che invece di ignorare gli eventi o sperare che in qualche modo rientrassero avrebbe dovuto governarli con saggezza ed intelligenza.

Un ultimo appunto sull’Europa, di cui pesa come un macigno il silenzio su tutta la vicenda. Ed è paradossale visto che gli stessi catalani si dichiarano comunque europeisti, forse anche più del resto degli spagnoli. Un’altra occasione persa che non gioverà al futuro politico dell’Unione, per la quale questa crisi rischia di essere ancora più destabilizzante di quello che fu l’anno scorso la Brexit.

La crisi del liberalismo

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John Locke

Ci ricorderemo a lungo di questo 2016. Un anno segnato non soltanto dalla scomparsa della principessa Leila e di tante altre star da David Bowie a Prince, passando per Umberto Eco e Gene Wilder. È stato soprattutto un anno segnato dalla crisi generica del pensiero liberale come hanno dimostrato il successo della Brexit o l’elezione di Donald Trump. Eventi che sarebbero un ritorno della democrazia per alcuni, ma anche un arretramento della società aperta e globale decantata all’indomani della caduta del Muro di Berlino e dell’Unione Sovietica. Altro che fine della storia. Continua a leggere La crisi del liberalismo

Uno sguardo sulla riforma costituzionale

quesito-referendumLa battaglia per l’imminente referendum costituzionale che ci ha accompagnato nelle ultime settimane ha ormai stancato molti di noi, al punto che non si vede l’ora di mettervi la parola fine questa domenica.

Questo per i toni ossessivi, se non apocalittici, tra i due fronti, attorno ai quali in molti si schierano più per simpatie politiche che per una scelta ponderata e consapevole. Molti cittadini del resto non masticano granché di diritto costituzionale, nemmeno conoscono la stessa Costituzione o il funzionamento delle nostre istituzioni per capire veramente quale sia la posta in gioco nel voto in questione.

La Tana nel suo piccolo vuole allora dare un suo contributo sui punti salienti della riforma, senza pregiudizi di parte, perché a essere fondamentale in un dibattito è un’analisi seria dei fatti e non la ripetizione ad oltranza di slogan che invece di arricchire l’opinione pubblica non fanno che convincere le rispettive fazioni. Continua a leggere Uno sguardo sulla riforma costituzionale