Bastoni per l’elettroshock, mazze chiodate e manette sono diventate l’ultima moda dell’export made in China. È la denuncia di Amnesty International sul pericoloso traffico di strumenti di tortura che sta interessando sempre più aziende cinesi, che si mettono a pubblicizzare i loro prodotti come se fossero un giocattolo o lo smartphone all’ultimo grido.
Nello stesso tempo l’ONG punta il dito su un verdetto giudiziario che fa il paio con l’argomento, perché si è appena conclusa la triste vicenda del professore uiguro Ilham Tohti. Un esito il suo che risponde purtroppo alle peggiori attese.
L’accademico originario dello Xinjiang arrestato lo scorso gennaio nella sua casa di Beijing (Pechino) dove insegnava è stato alla fine condannato all’ergastolo per aver fomentato il separatismo della sua regione.
La sentenza, che secondo diverse associazioni internazionali è figlia di un processo viziato, arriva in un momento nel quale la regione più occidentale della Cina è più che mai nel mirino delle autorità, che lanciano così un messaggio fortissimo ai separatisti uiguri, che proprio ieri si sarebbero macchiati di un nuovo attentato costato la vita a due persone nella contea di Luntai.
Il pugno di ferro contro questa minoranza musulmana segue una recrudescenza dello scontro tra loro e la maggioranza han. Ad allarmare di più il governo è il fatto che la Cina per la prima volta abbia sentito sulla propria pelle la minaccia terroristica, quando tra lo scorso autunno e questa primavera si sono stati prima l’attentato di piazza Tiananmen e poi quello della stazione di Kunming. Inoltre si moltiplicano le voci di estremisti uiguri che partono verso la Siria o Iraq, facendo temere che ad un loro eventuale rientro siano molto più agguerriti di prima.
Molti ritengono comunque la sentenza contro Ilham Tohti semplicemente esagerata, anche perché la sua posizione era a favore della riappacificazione tra le due comunità invece che del secessionismo. La sua unica colpa è stata forse quella di aver criticato i metodi repressivi della polizia cinese, che a suo parere aggraverebbero la tensione interetnica invece di risolverla. Sembra tuttavia che neppure questa moderazione sia servita a proteggerlo dalla censura definitiva.
Eppure nonostante quest’atteggiamento repressivo l’anno scorso l’Alta Corte cinese aveva deciso di bandire uno dei suoi simboli per eccellenza: l’uso della tortura. Una mossa che ha del paradossale non soltanto per la difficile situazione nello Xinjiang, ma anche per la sopracitata esportazione di strumenti di tortura che vede il coinvolgimento di almeno un centinaio di aziende.
Un mercato rivolto soprattutto verso paesi africani o asiatici, un dato che secondo Amnesty International alimenterebbe gli abusi in questi stati, dove si vive un’epoca di crescente disordine politico-istituzionale spesso degenerata nella violenza aperta.