Turchia – La rivoluzione mancata

Si credeva imminente la fine di un’era, ma le elezioni turche di domenica 14 maggio hanno detto picche (o quasi). Nelle settimane precedenti al voto presidenziale e parlamentare la maggior parte degli analisti dava infatti il presidente Recep Tayyip Erdogan quasi spacciato di fronte al consenso crescente per il suo rivale, il leader dell’opposizione Kemal Kilicdaroglu, appoggiato da una cacofonia di partiti che vanno dal centrosinistra all’estrema destra.

Alla fine invece la valanga contro Erdogan non c’è stata che, anzi. ha quasi sfiorato la vittoria. Essendo arrivato a poco più del 49% (per chiudere la partita bisognava superare il 50%) la sfida proseguirà con un secondo turno il 28 maggio che vede adesso come favorito lo stesso presidente in carica. Ai vertici della politica da vent’anni suonati – per metà da primo ministro e l’altra metà da presidente – Erdogan ha dunque buone probabilità di continuare a rimanere in sella, nonostante i problemi diffusi nel paese tra migranti, crisi economica e gestione pasticciata dei soccorsi nelle aree terremotate lo scorso febbraio. 

Persino un’eventuale vittoria di Kilicdaroglu al secondo turno potrebbe non essere sufficiente a segnare la svolta tanto attesa dai liberali, dato che le elezioni parlamentari hanno visto comunque il trionfo della coalizione pro-Erdogan. Questa ha raccolto oltre 300 dei 600 seggi in palio, mentre gli avversari si dovranno accontentare di poco più di 200. Di conseguenza il futuro equilibrio politico della Turchia avrà davanti a sé due scenari entrambi poco incoraggianti: da un lato, in caso di conferma di Erdogan, un potere quasi assoluto per l’allineamento tra il Presidente e la Grande Assemblea Nazionale (il nome del Parlamento turco); dall’altro, se vincesse Kilicdaroglu, vi sarebbe una difficile convivenza tra una camera legislativa e un capo dello Stato di differente espressione politica. 

Di fronte a questo risultato molto incerto la Borsa di Istanbul è ovviamente in caduta libera, poiché le prospettive si configurano fosche qualunque sia il risultato. Apparentemente estranea a queste ed altre considerazioni pare essere la stessa opinione pubblica turca, che ha votato in massa (oltre l’87% di affluenza) per questo appuntamento elettorale e proprio con questa partecipazione ha forse contribuito a far reggere l’urto ad Erdogan. Questi ha goduto persino di ampi consensi nelle stesse zone terremotate che hanno scatenato innumerevoli polemiche contro gli interventi del governo, giudicati insufficienti e con gravi ritardi. Viene da chiedersi come sia possibile che il presidente turco goda ancora di tanto seguito malgrado le difficoltà che si sono moltiplicate negli ultimi anni.

In parte ciò è dovuto alla paura di molti suoi connazionali di interrompere la lunga, per quanto onerosa in termini di democrazia e stato di diritto, stabilità sotto l’egemonia di Erdogan e del suo partito AKP. Bisogna ricordare che la Repubblica turca, dalla sua nascita sulle ceneri dell’impero ottomano, ha vissuto decenni di disordini e colpi di stato militari che hanno tenuto la società sotto ostaggio per almeno mezzo secolo. Questa stagione ha avuto fine proprio con Erdogan, all’inizio salutato come una promessa dalla comunità internazionale, specie occidentale, dove si sperava che avrebbe modernizzato e fatto progredire il proprio paese al punto da farlo persino entrare nell’Unione Europea.

Col passare degli anni, invece, la Turchia ha deluso tali aspettative e ha visto l’ascesa di un ordinamento basato sulla filosofia islamista dell’AKP, che è diventato sempre più conservatore e intollerante per chi non si allinea ad essa. Questo ha causato non poche tensioni che sono sfociate in episodi anche preoccupanti, come la dura repressione delle proteste di Gezi Park nel 2013 contro la decisione di costruire un centro commerciale al posto del parco in questione. Ancor più allarmante fu il tentato golpe nel 2016 da parte di alcuni generali dell’esercito contro Erdogan, che si è risolto però in un fallimento e nel conseguente arresto di una marea di oppositori anche al di fuori della cerchia militare. 

Da allora l’idea di una Turchia democratica ed affine all’Occidente è sfumata fino ad evaporare, tanto che quasi nessuno crede più che il percorso di adesione all’Unione europea possa riprendere o abbia solo senso riparlarne. Rivolte le spalle all’ovest, la Turchia ha preferito perseguire una politica internazionale controversa verso est, da alcuni tacciata da ‘neo-ottomanesimo’, nel tentativo di recuperare una qualche sfera d’influenza in Medio Oriente come ai tempi del sultano. In certi casi sembra si punti addirittura a recuperare qualche pezzetto di terra del vecchio impero, vedi il ruolo turco nella guerra civile siriana, dove l’esercito di Ankara ha occupato di fatto una parte del territorio siriano con la scusa di proteggere i ribelli, con cui è alleato, dalle rappresaglie di Assad.

Stretta tra una politica interna che stenta ad uscire dall’equilibrio costruito in vent’anni di egemonia di Erdogan e una politica estera ambigua nell’essere contemporaneamente nella NATO, di nutrire ambizioni mediorientali e coltivare rapporti tutto sommato cordiali con le rampanti autocrazie russe e cinesi la Turchia di Erdogan è un attore a dir poco imprevedibile. E da come si sono messe le cose con queste elezioni non sembra che il quadro sia destinato a cambiare almeno a medio termine.

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