Quando il 1 luglio 1997 la città di Hong Kong ritornò sotto sovranità cinese dopo oltre un secolo di dominio britannico, alla popolazione locale era stata data la garanzia che l’isola avrebbe mantenuto un tipo d’istituzioni diverso rispetto a quello mono partitico della Repubblica popolare cinese.
La coesistenza tra un governo non eletto e uno più liberale, riassunto con la celebre frase ‘un paese, due sistemi’, si sarebbe dovuto mantenere fino al 2047, lasciando non pochi dubbi sul futuro della democrazia dell’isola una volta superata questa scadenza. In realtà, a nemmeno dieci anni dall’entrata in vigore dell’accordo, esso ha già dato i primi segni di cedimento, tanto che il prossimo 1 luglio si terrà ad Hong Kong una grande manifestazione per difendere il suffragio universale.
Ciò che rende la faccenda discutibile in partenza è il fatto che la gente di Hong Kong non stia difendendo un diritto acquisito, ma la prospettiva di ottenerlo tra circa tre anni. Finora l’elezione del cosiddetto “amministratore delegato” di Hong Kong infatti non avviene con un voto alle urne, ma attraverso uno speciale comitato, i cui membri sono scelti da vari settori dell’economia e della società come agricoltura, finanza, trasporti e persino sport o catering. Un club esclusivo e ristretto a un migliaio di persone che ha fatto gridare da tempo alla collusione tra questi e le autorità di Beijing (Pechino).
Le cose sarebbero dovute cambiare alle prossime elezioni del 2017, grazie all’introduzione del suffragio universale che, almeno sulla carta, dovrebbe rendere la competizione meno pilotata. Purtroppo il governo centrale nel 2007 aveva iniziato a navigare contro la Hong Kong Basic Law – una sorta di Costituzione redatta tra la Gran Bretagna e la Repubblica popolare cinese – sostenendo che “nel 2017 l’elezione […] potrebbe avvalersi del suffragio universale”. Di recente ha inoltre affermato che i soli candidati eleggibili devono “amare la Cina e Hong Kong”, un’affermazione che suona quasi come la richiesta di un preventivo giuramento di fedeltà al governo comunista.
Questa situazione ambigua ha spinto migliaia di abitanti di Hong Kong a dare una connotazione ancora più militante alla consueta marcia per la democrazia, che si tiene ogni anno in occasione dell’anniversario del ritorno dell’isola alla Cina continentale. Oltre a quest’imminente appuntamento, promosso dal movimento Occupy Cental, nei giorni scorsi si è tenuto anche un referendum non ufficiale per sostenere il suffragio universale. Alla consultazione avrebbero partecipato oltre 700.000 persone e malgrado il governo centrale lo abbia subito bollato come una mezza pagliacciata i manifestanti sembrano decisi ad andare avanti con la loro lotta.
Il caso ha voluto che in questi stessi giorni un’altra ‘Cina’ finisse al centro dell’attenzione politica nella regione. Stiamo parlando di Taiwan, un territorio che come Hong Kong è stato perduto in una delle tante guerre umilianti che il morente impero manciù combatté durante il XIX secolo. A differenza della prima, che è stata recuperata dopo una lunga attesa, la cosiddetta Repubblica di Cina non è mai tornata sotto l’autorità cinese da quando venne prima strappata dai giapponesi alla fine dell’Ottocento, per poi diventare il rifugio del governo nazionalista del Guomindang alla fine della guerra civile con i comunisti nel 1950.
Quest’anno è iniziato tuttavia con un evento storico, ovvero la prima visita ufficiale a febbraio di un membro del governo di Taiwan nella Repubblica popolare cinese, il ministro per gli affari continentali Wang Yu-chi. Adesso invece la cortesia verrà ricambiata dalla sua controparte Zhang Zhijun, il quale incontrerà anche il sindaco Kaohsiung, Chen Chu, membro dell’opposizione indipendentista. La crescente attività diplomatica, che mira ad accattivarsi anche i politici più freddi come Chen Chu, è vista dai due interlocutori, almeno quelli di più alto livello, come un’opportunità per rafforzare i già forti legami economici tra le due sponde.
Non mancano però i taiwnesi che interpretano quest’avvicinamento come il primo passo verso una futura annessione, obiettivo a cui il governo di Beijing non ha mai rinunciato, a costo anche di usare la forza in caso di una dichiarazione d’indipendenza unilaterale. Poco tempo dopo l’incontro di febbraio sono esplose numerose proteste che hanno portato addirittura all’occupazione del parlamento di Taiwan per tre settimane e l’arrivo della delegazione continentale ha fatto promettere nuove agitazioni, specialmente a Kaohsiung.
Le difficoltà che la Cina sta affrontando simultaneamente con questi due territori mostrano quanto sia ancora ben lontana da esprimere un modello che sia attraente persino a chi ha con lei un comune passato. Ciò non si misura tanto a livello economico – tutti vogliono fare affari con lei in fondo – quanto a livello politico e culturale in quello che viene descritto come soft power, ovvero la capacità di persuasione e attrazione che un paese esercita nei confronti dei suoi partner.
L’esempio più lampante in questo senso è l’America, nonostante i ripetuti acciacchi nella sua gestione degli affari globali, o la Russia, come sta avvenendo nei confronti delle repubbliche dell’Asia Centrale o in modo più violento con i combattenti filorussi dell’Ucraina orientale. Anche nell’Europa piena di problemi esiste ancora qualche traccia di soft power, mentre la Cina sembra esserne ancora molto scarsa col risultato che la sua grande statura viene vissuta sempre più come una potenziale minaccia.
Questo deficit di attrattiva spiega come mai le manovre di Beijing intorno ai vari arcipelaghi del Mar Cinese abbiano scatenato tanto allarme nei suoi vicini, spingendoli ad alleanze di contenimento o ad un riarmo impensabile fino a pochi anni fa. Il governo cinese non è rimasto certamente con le mani in mano, investendo negli ultimi anni miliardi di dollari (o renminbi se preferite) in progetti culturali o kolossal cinematografici nella speranza di penetrare meglio nell’immaginario collettivo. Da come stanno le cose pare che per essere più attraenti ci sarà bisogno di molto più del genio di Zhang Yimou o degli splendidi itinerari dedicati ai turisti nel Guilin o nello Hangzhou.
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