Gaza – La diplomazia nel tunnel

20140722-172637-62797208.jpg“Grazie Netanyahu, che Dio ci mandi più uomini come voi per distruggere Hamas!”. Questa frase non è stata pronunciata da un sionista radicale o un predicatore ultraortodosso di Gerusalemme, ma da un giornalista egiziano chiamato Azza Sami, del quotidiano filo governativo Al-Ahram. E non è l’unica voce in Egitto che si schiera al fianco d’Israele nella guerra di Gaza, giunta ormai a due settimane di conflitto con un bilancio di oltre 600 morti, più di 3.000 feriti e almeno 100.000 rifugiati.
Sentire i media egiziani inneggiare all’operazione Protective Edge può suonare molto insolito nella consueta narrativa che sia nel mondo arabo che in Occidente descrive i palestinesi indifesi (la maggior parte delle vittime sono loro) e gli israeliani come degli aggressori invincibili e senza pietà. In realtà non c’è nulla di cui stupirsi, perché la storia non si diverte a ripetere solo la guerra di Gaza dopo l’edizione del 2008, ma anche gli stessi tatticismi che allora come oggi invece di lavorare per una soluzione definitiva al problema non fanno che rimandarla.

Perché il governo egiziano non si schiera con Hamas, ma anzi l’osteggia con toni che a volte superano quelli degli israeliani più intransigenti? Il motivo è molto semplice, poiché le autorità egiziane considerano il movimento palestinese nella stessa famiglia dei Fratelli Musulmani, il partito islamista che riuscì ad eleggere l’unico presidente politico (Mohammed Morsi) in sessant’anni di predominio militare.
Dopo il colpo di stato militare del luglio 2013 che portò alla caduta di Morsi, i Fratelli Musulmani sono stati emarginati sempre più dalla vita politica, venendo accusati di ogni genere di nefandezza e violenza, specialmente nella regione del Sinai. Nonostante il rigido controllo militare, questa penisola è stata sempre una terra di nessuno in cui il dominio effettivo lo hanno le riottose tribù locali o gruppi terroristici che il governo tende ad identificare ora con i Fratelli Musulmani, ora con Ansar Bayt al Maqdis e talvolta con Hamas.
La reale identità dei terroristi in fondo non sembra essere molto importante, purché facciano tutti parte della galassia islamista che dal confine con Gaza, a quello con la Libia e con Sudan cinge l’Egitto in una morsa che solo i militari guidati dal neopresidente al-Sisi assicurano di poter spezzare. Questo spiega dunque perché nell’ultimo conflitto di Gaza i media egiziani allineati al potere si siano affrettati a tifare per Israele, augurandosi che il suo attacco finisca per neutralizzare un potente alleato dei Fratelli Musulmani.
L’offensiva mediatica contro gli islamisti di Gaza non viene soltanto dall’Egitto, ma anche dall’Arabia Saudita, un altro arcinemico dei Fratelli Musulmani. Da qui si moltiplicano le accuse che Hamas usi la causa palestinese per il suo tornaconto personale, citando a questo riguardo l’esilio dorato in Qatar (paese che è stato lo sponsor principale dei Fratelli Musulmani durante le primavere arabe) del suo leader Khaled Mash’al, una discrepanza che rivelerebbe l’ipocrisia del movimento.
Viste queste premesse non sorprende che Hamas abbia respinto la mediazione offerta dall’Egitto e sostenuta da USA e Lega Araba per fermare la violenza in corso. La parola ora passa ai diplomatici di alto livello che spesso appaiono troppo lontani per avere il polso della situazione, mentre chi si trova più prossimo come l’Unione Europea o l’Italia che vi vuole candidare la Mogherini agli Esteri si distinguono per la loro proverbiale inconsistenza.
Rimane da chiedersi a chi giovi l’ultimo massacro che probabilmente non porterà da nessuna parte nell’eterna questione israelo-palestinese e potrebbe persino aggravare la situazione in una regione già molto caotica. Forse a Israele che con i suoi attacchi si accontenterà di zittire per qualche altro anno Hamas. Forse all’Egitto e all’Arabia Saudita che avranno dato una nuova umiliazione ai loro avversari politici. Tutti tatticismi che ritardano la soluzione del problema invece di trovare un equilibrio duraturo che la renda possibile. Basterà questo, si chiede un giornalista del Foreign Affairs, a definirli dei reali vincitori?

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