Ridateci i Poltergeist, basta con le imitazioni.
Questo il pensiero dopo la visione dell’ultimo remake.
Diretto da Gil Kenan il film non è minimamente in grado di arrivare al livello del film originale di Tobe Hooper che resta insuperabile.
Del resto all’epoca un certo Steven Spielberg ne curò soggetto e sceneggiatura e l’effetto finale, in termini cinematografici, fu non soltanto efficace ma entrò a far parte delle atmosfere più significative degli anni ’80.
Un film nato per conciliare l’horror e la fantascienza, dove non era soltanto la paura a fare da padrone: era un viaggio nelle vaste terre della dimensione spirituale dei Poltergeist e soltanto alla fine il male, l’oscura presenza, manifestava la sua esistenza.
Le tre Nomination all’Oscar sono appunto lì a testimoniarlo (Miglior montaggio sonoro a Stephen Hunter Flick e Richard L. Anderson, Migliori effetti speciali a Richard Edlund, Michael Wood e Bruce Nicholson, Miglior colonna sonora a Jerry Goldsmith) cosa impensabile con il remake uscito il 2 luglio nelle sale cinematografiche.
Non soltanto un’espressività attoriale ai limiti dell’imbarazzo ma una totale incapacità di costruire l’atmosfera giusta. Questa involuzione coglie tutto il film e in particolare, a nostro avviso, Jarred Harris e Sam Rockwell. Unica attrice apprezzabile è la piccola Kennedi Clements: grazie alla sua espressività molto somigliante all’attrice bambina originale Heather O’Rourke (scomparsa prematuramente nel 1988) si riesce a salvare la baracca.
E i Poltergeist? Solita e visibilmente artificiale (poco realistica) computer grafica. Dove sono finiti i veri effetti speciali, quelli che davano quel senso di materialità ormai svanito? Tutte le immagini più cruente finiscono per rivelarsi palesemente finte, stile videogame. Forse mettere qualche manichino in una vera bara non avrebbe guastato.
Non sufficiente.