Egitto – Il trionfo dimezzato

20140530-162544-59144637.jpgSecondo gli osservatori dell’Unione Europea, il voto alle presidenziali egiziane che si è svolto questa settimana è stato “libero e democratico”. Difficile crederlo con un vincitore, il generale Abdel Fattah al-Sisi, che ha ottenuto una percentuale superiore al 93%, un numero degno da regime dispotico.
Nonostante la vittoria di al-Sisi fosse annunciata da settimane, addirittura da prima che si candidasse ufficialmente, il risultato solleva più di qualche dubbio sullo stato di salute della politica egiziana. A questo riguardo c’è un altro dato molto preoccupante, che potrebbe compromettere già in partenza la legittimità del nuovo presidente: sebbene i giorni per votare alla fine siano stati tre invece che due, l’affluenza alle urne non avrebbe raggiunto nemmeno il 50%.

Il fatto che oltre metà del paese non sostenga il nuovo corso non è da ascrivere ad una generica disillusione come succede spesso nel nostro paese. Buona parte di questi astenuti hanno scelto deliberatamente di boicottare il voto perché sostenitori del partito islamista dei Fratelli Musulmani dell’ex presidente Mohamed Morsi, destituito lo scorso luglio da un colpo di Stato che secondo loro sarebbe stato architettato proprio dal generale al-Sisi.
Dalla caduta di Morsi, i seguaci dei Fratelli Musulmani non hanno smesso di manifestare in tutto il paese contro lo strapotere dei militari, la cui presenza è radicata tanto a livello politico che economico. Ciò grazie soprattutto ai cospicui aiuti finanziari assicurati dagli Stati Uniti al Cairo dopo gli accordi di pace di Camp David del 1978, che siglarono la fine della lunga rivalità tra Egitto e Israele. In cambio di garantire all’Occidente la sicurezza dell’area, le forze armate egiziane beneficiarono di una quantità di denaro tale da riuscire a costruirsi degli imperi finanziari praticamente incontrastati e diventando un attore politico di cui non si poteva assolutamente far a meno,
La primavera araba del 2011 aveva dato l’illusione che questo meccanismo perverso tra soldati e politica iniziasse a frantumarsi, sebbene i più accorti avessero notato che i militari, attraverso il loro potente Consiglio Supremo delle Forze Armate (meglio conosciuto come Scaf), conservavano un’ingombrante presenza nella difficile transizione del paese. Confidando nell’inesperienza politica dei Fratelli Musulmani, trionfatori delle prime e forse uniche elezioni libere egiziane del 2011, lo Scaf ha atteso pazientemente che Morsi facesse qualche passo falso per ricominciare a fare pressione, cosa che è poi effettivamente avvenuta.
Un primo segnale di cedimento lo si potrebbe riscontrare nell’estate del 2012, quando il presidente nominò il popolare al-Sisi nuovo Capo delle Forze armate. Un mossa sensata per rimanere in sella dopo questa concessione allo Scaf sarebbe stata quella riavviare il processo di riconciliazione nazionale. Purtroppo il governo Morsi, comportandosi come una belva ferita, ha tentato invece d’inasprire il confronto con i suoi oppositori, seminando un malcontento di cui i militari hanno approfittato per togliere di mezzo il presidente e riprendersi il ruolo di protagonisti assoluti com’è sempre stato.
C’è però una differenza rispetto a questo passato considerato dagli analisti più pigri un inevitabile déjà-vu degli affari egiziani. Il processo politico avviato dalla primavera araba ha mobilitato contro i militari una fetta di popolazione che non va sottovalutata. La percentuale del voto presidenziale del resto è lì a dimostrarlo.
Disgraziatamente i generali sembrano propensi a commettere gli stessi errori dei Fratelli Musulmani, ossia rifiutando qualsiasi dialogo con i seguaci di Morsi, che vengono considerati alla stregua di fuorilegge. la dura repressione, gli islamisti continuano a manifestare nelle varie città egiziane e ad opporsi con violenza al nuovo governo di al-Sisi. Il rischio maggiore di questo scontro è quello che il paese alla lunga finisca per destabilizzarsi in modo simile a quanto sta avvenendo nella vicina Libia, creando un pericolosissimo cordone tra questo buco nero e quello siriano più ad est.
E le grandi potenze? Sembrano tutte accomunate dalla speranza che al-Sisi riprenda in mano la situazione, offrendogli massicci aiuti militari come fanno Russia e petromonarchie del Golfo o evitando di lanciare troppe critiche agli standard democratici come fanno Europa e Stati Uniti. Questi ultimi non possono comunque nascondere l’imbarazzo per l’esito politico della transizione e ciò spiegherebbe la posizione quasi defilata che hanno adottato negli ultimi sviluppi. La distanza dell’Occidente non fa solo perdere influenza nel nuovo Egitto, ma indebolisce ogni possibile persuasione affinché i militari rinuncino all’uso della forza per trovare una soluzione pacifica alle lacerazioni sociali. Attribuire la responsabilità di un nuovo disastro soltanto all”ultimo faraone’ sarebbe un altro déjà-vu.

Foto Reuters

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