Dopo la Crimea tocca a Donetsk e Lugansk? A due settimane dalle elezioni presidenziali, che cadranno in concomitanza con quelle europee, lo spettro della disintegrazione territoriale torna a minacciare l’Ucraina. Come molti sapranno nelle due regioni dell’Ucraina orientale a forte minoranza russa (intorno al 40%) si è da poco votato un referendum autonomista che ha registrato percentuali superiori al 90%. E nei prossimi giorni dovrebbe svolgersi anche un nuovo referendum, questa volta a Kharkiv, dov’è la consultazione è stata rimandata a data ancora da definire.
All’indomani del voto quasi unanime, le due province secessioniste stanno però imboccando due strade diverse sui loro rapporti con il governo di Kiev. Mentre il governo di Donetsk già considera le autorità ucraine come un’entità straniera e chiede l’annessione a Mosca, il popolo di Lugansk si mostra molto più conciliante, suggerendo una modifica della Costituzione in senso più federalista come punto d’incontro.
Finora tra il governo di Kiev e gli insorti prevale soprattutto la violenza, in particolare nella regione di Donetsk. I feroci combattimenti degli ultimi giorni nelle città di Mariupol e Sloviansk hanno causato decine di morti, rendendole un teatro da vera guerra civile. La Russia per il momento ostenta prudenza, limitandosi a rispettare la ‘volontà popolare’ in attesa di ulteriori appigli, come potrebbe essere un secondo referendum per l’annessione alla Federazione Russa, che qualcuno vorrebbe indire addirittura per domenica prossima.
Non è detto però che l’esito di queste due province sia già segnato, anche perché a differenza della Crimea le conseguenze di una loro secessione definitiva avrebbe conseguenze molto più pesanti della strategica penisola sul Mar Nero. Innanzitutto per un contesto internazionale già compromesso da quanto avvenuto in Crimea, primo tempo di una partita ucraina che il Cremlino ha giocato brillantemente contro un’Occidente quasi apatico, Europa in testa.
Quest’ultima sta provando in qualche modo a riscattarsi nel secondo tempo, ma su di essa pesa l’appuntamento delle elezioni europee, che nell’ipotesi più pessimistica della crisi ucraina (se il referendum del 18 maggio dovesse essere confermato e sancire il risultato a favore dell’annessione) potrebbero giungere quando l’arbitro ha fischiato la fine della partita da un pezzo.
Lo strappo totale di Donetsk e Lugansk – a quel punto potrebbe essere molto tentata di farlo anche Kharkiv – sarebbe inoltre un colpo di grazia mortale alla traballante economia ucraina. Ciò perché questi territori rappresentano il cuore industriale del paese: a Lugansk ad esempio hanno sede industrie importantissime come il carbone, prodotti chimici, gas, manifatturiera o raffinerie; a Donetsk, patria dell’ex presidente Yanukovich domina l’industria pesante o di materiali da costruzione.
È logico pensare che il governo di Kiev sia disposto a lasciarsi sfuggire queste ricche province, come dimostra la sua tenacia nel combattere l’insurrezione dei separatisti. Alcuni dei quali forse sono a loro volta consapevoli di quest’importanza e forse stanno sfruttando la rivolta per fare pressione sul governo centrale.
Oggi si terrà la prima riunione di unità nazionale con diversi rappresentanti delle regioni ucraine, ma nessuno da parte degli insorti. Tra gli invitati c’è però Rinat Akhmetov, potente oligarca di origine tatara che viene proprio dal Donetsk. Akhmetov viene considerato da molti il leader di una sorta di clan criminale e persino uno degli artefici della carriera politica di Yanukovich.
Visti gli interessi dietro quest’uomo la sua presenza al tavolo negoziale non passa certo inosservata, magari per discutere con le nuove autorità sulle possibili indagini anticorruzione che potrebbero minare al suo potente impero.
In un quadro politico dominato da colleghi oligarchi come la Tymoshenko o il candidato alle presidenziali Petro Poroshenko, conosciuto anche come il ‘re del cioccolato’, e le difficili prospettive degli oligarchi al di là del confine (Mikhail Khodorkovskij docet) troverà senza dubbio molte orecchie disposte ad ascoltarlo in cambio di un raffreddamento della causa separatista. Un riconoscimento di fatto dell’eterna influenza degli oligarchi che rischia di compromettere anche le aspirazioni più genuinamente democratiche della rivoluzione di febbraio. A meno che qualche imprevisto non rompa le uova nel paniere di questi signori.
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