
Ci ricorderemo a lungo di questo 2016. Un anno segnato non soltanto dalla scomparsa della principessa Leila e di tante altre star da David Bowie a Prince, passando per Umberto Eco e Gene Wilder. È stato soprattutto un anno segnato dalla crisi generica del pensiero liberale come hanno dimostrato il successo della Brexit o l’elezione di Donald Trump. Eventi che sarebbero un ritorno della democrazia per alcuni, ma anche un arretramento della società aperta e globale decantata all’indomani della caduta del Muro di Berlino e dell’Unione Sovietica. Altro che fine della storia.
Sforzandoci di andare oltre gli allarmismi di chi vede nell’avanzata dei populismi un’imminente apocalisse, anche se in parte sono indubbiamente il sintomo di una politica e società malate, sarebbe preferibile interrogarsi sul perché la gente sembri propensa ad una maggiore chiusura, quando non un’autarchia delle proprie nazioni.
Da un lato siamo una società sempre più anziana, in cui prevale la nostalgia dei bei tempi d’oro che furono quando c’era il benessere del dopoguerra. Allora il mondo era più semplice a livello internazionale con l’ordine bipolare che alcuni credono, come se la storia fosse capace di fotocopiarsi, di rileggere nella cosiddetta Guerra fredda 2.0. E non esisteva neppure il concetto di outsourcing, perché molti dei paesi dalla manodopera a basso costo di oggi erano a malapena usciti dal dominio coloniale ed erano insignificanti nel nostro piccolo e rassicurante mercato.
Oggi non solo non ci capisce quasi più come sono strutturate le alleanze internazionali, ma fatichiamo a sopravvivere nel nostro stesso paese per le difficoltà ad imporsi in un mercato sempre più complesso e multipolare. A livello più ristretto ciò si ripercuote nella difficoltà a trovare un lavoro stabile e a mantenere un tessuto sociale sfilacciato dalla debolezza delle istituzioni e da un rimescolamento demografico che è sempre stato e sarà comunque destino di questo pianeta.

Si sa che l’umanità trae profitto molto più spesso dalla sintesi che dal rifiuto di unire nuove forze, altrimenti non vi sarebbe nessun rinnovamento o evoluzione. A condizione però che a questa unione corrisponda una maggiore partecipazione dei nuovi soggetti nei processi decisionali per disinnescare fenomeni esplosivi quali rivolte sociali o peggio terrorismo.
Per fare questo non basta aprire la società soltanto a livello statale, ma pure su scala mondiale per gestire i problemi del mondo con maggiore reciprocità ed equilibrio tra i vari centri di potere. Ciò ridurrebbe significativamente il rischio di povertà, guerra e marginalizzazione che colpiscono i soggetti più vulnerabili come i ceti medio-bassi, i profughi e i migranti.
Incoraggiate dal proprio trionfo sul comunismo, le forze liberali hanno dato per scontato che i suoi valori fossero giusti a prescindere e invece di affrontare con resilienza le sfide del mondo post-bipolare pretendevano che la gente dovesse accettare supinamente discorsi che nei fatti non cambiavano granché la situazione e perpetuavano gli equilibri dei più forti.
La conseguenza di questo è che l’egoismo pacato dei liberali sta cedendo il posto ad un egoismo più muscolare, ovvero di quei movimenti più conservatori e nazionalisti il cui arrocco tuttavia è più foriero di conflitti e divisioni e invece di risolvere i suddetti problemi finirebbe per aggravarli.
Il fatto che oltre all’Occidente stiano emergendo dei poli alternativi come quello russo o cinese e l’assenza di una seria collaborazione con loro non aiuterà a semplificare un quadro in cui si moltiplicano i punti di frizione e rendono ancora più difficile costruire una società armoniosa e stabile.

Nuovi equilibri mondiali e nuovi media moltiplicano anche i punti di vista, che da una parte è un beneficio per una visione più completa del nostro mondo. Tuttavia se questo crescente pluralismo ha messo fine alle verità assolute dell’epoca delle ideologie, si sta nello stesso tempo affermando un’era di perenne messa in discussione che invece di arricchire serve quasi esclusivamente a compattare i rispettivi schieramenti e a dividerli, privandoci di un minimo comun denominatore che ci unisca come comunità.
Un esempio di questa cultura politica agonizzante è quanto sta avvenendo negli Stati Uniti, dove abbiamo un presidente uscente che a rischio di esacerbare gli animi sta apertamente delegittimando il suo successore, il quale da parte sua ha manifestato un chiaro disprezzo per il fair play e le istituzioni che per il suo carattere anti establishment sicuramente paga a livello elettorale, ma arreca danni non indifferenti sulla tenuta del paese.
Per riprendersi dalla batosta ricevuta nell’anno che sta per finire le forze liberali dovrebbero fare un bagno d’umiltà e mostrare più coraggio e determinazione nel gestire un mondo in difficoltà come il nostro. L’umanità ha dimostrato tante volte di saper fare grandi passi in avanti, specialmente dopo momenti bui, rimettendo in discussione assunti che sembravano intoccabili per il bene delle generazioni future. Chiudersi in se stessi e limitarsi al disprezzo per l’ignoranza del popolino non farebbe che accelerare la fine di una corrente di pensiero tutt’altro che obsoleta.
Il raffinamento dell’intelletto ha due fini: in primo luogo accrescere la nostra conoscenza, secondariamente permetterci di diffondere questa conoscenza agli altri.
John Locke, Some thoughts concerning reading and study for a gentleman (1689)