Turchia – Il lungo braccio di ferro

GolpeLa lunga èra Erdogan è stata vicina ad arrivare al suo termine. Purtroppo non con libere elezioni, ma con un trauma che pensavano appartenesse ormai al passato della Turchia. A togliere il tappeto da sotto i piedi del presidente ci ha provato infatti un colpo di Stato militare che si giustifica in nome della “difesa della democrazia”.
Si tratta di un copione già visto, poiché se il golpe fosse andato a buon fine sarebbe il quinto da quando esiste la Repubblica (1960,1971,1980,1998). Erdogan, che era in vacanza a Bodrum, città sull’Egeo, aveva tentato di fuggire in cerca di asilo in Germania che gliel’avrebbe però rifiutato. In un messaggio via telefono ha intimato i suoi sostenitori ad opporsi ai militari col rischio d’innescare una vera e propria guerra civile.
L’esercito nel frattempo si era impadronito dei principali punti strategici del potere, compresa la sede del partito governativo Akp,  la TV di Stato Trt e l’aeroporto Ataturk di Istanbul. Inoltre ha imposto la legge marziale e il coprifuoco, bloccato l’accesso ai principali social network e preso in ostaggio lo stesso capo di Stato maggiore Hulusi Akar.
La parabola di Erdogan ricorda molto quella dell’ex presidente egiziano Morsi, anche lui leader di una formazione d’ispirazione islamica che era riuscito a interrompere la lunga egemonia dei militari nel suo paese. Morsi aveva resistito a malapena un anno, mentre Erdogan ben tredici anni facendo pensare che il suo bracco di ferro contro i generali fosse andato a buon fine.
Questo tentato colpo di Stato avviene in una congiuntura problematica non solo per la Turchia, ma per l’intera regione. Negli ultimi anni la situazione interna del paese era peggiorata a causa del malcontento verso i metodi sempre più autoritari di Erdogan, con la censura dei media a lui ostili, la pretesa di sapere cosa fosse giusto per la società e la riapertura della drammatica guerra ai curdi del PKK. Una deriva che aveva portato due mesi fa uno degli alleati più fedeli, l’ex ministro degli esteri ed ex premier Davutoglu ad abbandonare l’incarico.
A peggiorare le cose ci aveva pensato anche la politica estera. Prima con il fallimento d’intercettare le primavere arabe a vantaggio delle ambizioni neo-ottomane nell’area e poi l’ambigua politica con i gruppi fondamentalisti in Siria, compreso lo Stato islamico del quale acquisterebbe il petrolio. Ciò gli sarebbe costato l’isolamento sia in Occidente, dove però faceva comodo che la Turchia si sobbarcasse l’onere delle migliaia di profughi siriani, che in Oriente con la Russia. Con quest’ultima particolarmente eclatante fu l’abbattimento di un jet russo da parte turca nel novembre 2015 che raffreddò parecchio le relazioni tra Mosca e Ankara.
Nella notte la situazione si è poi rovesciata. Alla fine i sostenitori del presidente hanno affrontato i militari scortati dalla polizia fedele ad Erdogan, mentre e truppe lealiste riprendevano il controllo della situazione arrestando oltre 700 militari. Alla fine il presidente è riuscito ad atterrare ad Istanbul,  ripristinando il governo anche se la tensione resta molto alta.
Ora che la Turchia è in preda al caos sono molti gli interrogativi che si aprono. Il governo riuscirà a ripristinare in fretta l’ordine o le divisioni sono destinate a proseguire aggravando ulteriormente la situazione? E se ciò dovesse accadere esiste il rischio che lo Stato islamico, al momento in ritirata nel Siraq, possa approfittarne per trovare un nuovo slancio?
Ci sono altre domande da porsi, tra cui cosa ne sarà della questione curda: subirà una recrudescenza oppure si cercherà un accordo per il bene della stabilità? Il futuro della Turchia nella NATO e nell’Unione Europea rispetto a quanto detto sopra potrebbero sembrare un dettaglio, ma non lo sono perché tirano in ballo questioni che interessano la sicurezza collettiva del continente e l’opportunità politica di negoziare l’ingresso nella casa europea di un paese ogni giorno sempre meno compatibile con i valori che la ispirano, o almeno dovrebbero.

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