Magia, totale assenza di regole e caos in un viaggio nell’animo umano. Arriva oggi nelle sale Alice attraverso lo specchio tratto dal famoso romanzo di Lewis Carroll.
Diretto da James Bobin il film è il sequel di Alice in Wonderland e vede Tim Burton in veste di produttore.
Il regno di Sottomondo è nel più totale sconforto. Il Cappellaio Matto ha sviluppato una grave malattia e sta morendo. Alice, dopo anni di assenza, tornerà e dovrà vedersela contro un nemico molto potente: il tempo. Non restano infatti molte speranze per salvare il suo bizzarro amico.
Con un buon ritmo e una trama snella ed efficace il regista riesce con grande accuratezza a tener testa al precedente capitolo diretto da Tim Burton riuscendo a delineare da subito i temi cardine: il Sottomondo come luogo interiore, dominato dal tempo e la ricerca della famiglia come elemento comune a tutti i personaggi. La pellicola enfatizza l’importanza dell’interiorità come elemento che più conta (il Cappellaio non a caso intensifica o meno il suo vivace colore a seconda delle sue emozioni) mantenendo così fede alle radici delle opere letterarie di Carroll nelle quali lo spazio, il tempo e le emozioni interiori erano interconnesse.
Un nemico non casuale, il tempo, interpretato egregiamente da un ottimo Sacha Baron Cohen perfettamente a suo agio nel ruolo del villain principale. Presente inoltre l’immancabile Helena Bonham Carter nel ruolo della temibile, quanto desiderosa di amore, Regina Rossa. Alice (Mia Wasikowska) ci condurrà in un viaggio ambientato dopo la sconfitta del Ciciarampa ma che ci rivelerà il passato, in particolar modo quello del Cappellaio Matto.
Come per il primo capitolo l’interpretazione di Johnny Depp genera purtroppo un effetto ridondante. Questa sensazione di sovrabbondanza formale, con la quale delinea i tratti del Cappellaio, rappresenta l’unica nota stonata del film. Nell’assistere all’interpretazione non si riesce infatti a non paragonarla a noti personaggi del passato dello stesso Depp. Non presenti inoltre quei tratti di “deliranza burtoniana” che comunque lo resero qualcosa di unico.