Il Presidente degli Stati Uniti è il capo del mondo e l’America è l’esempio migliore che abbiamo della democrazia. Queste sono frasi che si dicono spesso quando parliamo della superpotenza d’oltreoceano, ma quanto c’è di vero in questo immaginario e quanto fa parte dello stereotipo?
A smascherare questi e altri luoghi comuni sull’America ci prova l’ultimo numero di Limes intitolato U.S. Confidential, presentato oggi alla Sala Santa Maria in Aquiro, a Roma.
Tanti i temi trattati in questi 90 minuti di discussione, a cominciare dall’eredità che l’attuale presidente statunitense Obama sta per lasciare con la sua amministrazione.
Ben poco, stando a quanto dice il direttore di Limes, Lucio Caracciolo, che mette in dubbio le diverse strategie messe in campo da Obama: dal disimpegno in Medio Oriente declinato nell’attuale caos al futuro del cosiddetto pivot to Asia, sino al sempre più difficile negoziato con l’Iran, forse l’unica vera svolta che potrebbe realizzare, anche se gli effetti potrebbero essere tutt’altro che durevoli.
Il primo punto che emerge dall’incontro infatti è la natura molto più complessa del potere presidenziale, che non è affatto equivalente ad un monarca assoluto come siamo abituati a pensare. Il sistema di check and balances di cui l’America va tanto fiera è al contempo il rovescio della medaglia per un esecutivo ambizioso che non gode della stessa maggioranza al Congresso, il quale può modificare le iniziative dell’amministrazione al punto da vanificarle.
A chi si lamenta della conflittualità della nostra politica farebbe meglio a guardare a quella americana, la quale, come ha descritto brillantemente il giornalista Dario Fabbri, è pesantemente condizionata dai debiti dei singoli politici e dalle famigerate lobby.
Ogni politico, anche i più potenti come i Clinton, per conquistare voti casa per casa ha bisogno di continui finanziamenti per eventi, spot elettorali, consulenze, restando in bilico tra una vittoria ottenuta con pesanti sacrifici e un tragico fallimenti perché senza più fondi.
Un simile finanziamento rende i candidati vulnerabili anche dopo essere stati eletti, lasciandoli in balia dei loro benefattori che non sono gli unici a cui dovranno rendere conto nel corso del loro mandato. E qui entrano in scena le lobby che oltre a sostenere economicamente i loro eletti svolgono un ruolo per essi divenuto quasi indispensabile.
Molti dei nuovi arrivati al Congresso infatti provengono da realtà assai distanti dall’House of Cards di Washington D.C. e spesso non hanno la benché minima idea di come muoversi in questo covo di lupi.
In loro soccorso arrivano perciò i lobbisti che paradossalmente sono molto più afferrati dei politici su come funzionano le cose e li istruiscono praticamente su ogni cosa, persino su come si scrive una legge. Di conseguenza gli allievi, ricolmi di gratitudine, favoriscono gli interessi dei propri mentori, anche quando una volta esaurita la carriera politica divengono lobbisti a loro volta pronti a dar man forte alle nuove generazioni.
Una prospettiva originale e interessante su un attore geopolitico di prim’ordine che aiuta a capire come mai negli ultimi anni dimostri crescenti difficoltà ad esercitare un ruolo a cui ci eravamo abituati, complici la breve stagione negli anni Novanta della pax americana e forse un po’ di quella stessa retorica che questo numero prova a sfatare.