Quegli splendidi Lamassù, le divinità alate dal corpo di toto o leone e la testa d’uomo rano sopravvissuti a trenta secoli di storia, nonostante la ferocia di tutti gli imperi che si sono combattuti per affermare la propria egemonia sulla regione che ha dato i natali alla civiltà. Poi sono arrivati i martelli e i bulldozer dei nuovi barbari che di quella stessa civiltà (“falsi idoli” li chiamano) non vogliono lasciare più traccia.
Le immagini di questi giorni delle distruzioni dei monumenti assiri di Mosul e della città di Nimrud, nel nord dell’Iraq, lasciano una ferita profonda non soltanto in questo martoriato paese. Esattamente come successe con la scomparsa del minareto Omayyadi di Aleppo o i mastodontici Buddha afghani di Bamiyan a rimanere segnata è tutta l’umanità, la quale per colpa di una violenza cieca e insensata sta perdendo in modo irrimediabile parti della sua eredità.
Ciò che aggrava questo dolore è vedere la confusione che regna tra i vari attori a cui si affidano le speranze di mettere fine alla minaccia dello Stato Islamico. Un soggetto politico che peraltro ha soffiato già la sua prima candelina, se prendiamo come punto di partenza le grandi offensive jihadiste a Falluja all’inizio del 2014 che hanno segnato il debutto di un fenomeno che viene da lontano e sta interessando altri paesi come Libia, Egitto e Yemen.
Mentre migliaia di civili inermi continuano a subire la crudeltà dell’IS, le grandi cancellerie non smettono di fare i loro stancanti equilibrismi politici. L’ultimo atto di questo teatrino sta accompagnando l’imminente assedio di Tikrit da parte delle forze governative irachene. Pomo della discordia sarebbe il fatto che tra le fila dell’esausto esercito di Baghdad ci sarebbero militari iraniani, in particolare vicini alla Guardia Rivoluzionaria dei Pasdaran.
Il ruolo di Teheran nel vicino è sempre stato fumo negli occhi per potenze regionali come Arabia Saudita e Israele, principali alleati della superpotenza americana che dopo un lento disimpegno si vede costretta a tornarci di peso per impedire che lo Stato Islamico dilaghi in un Medio Oriente e Nord Africa in pieno “inverno arabo”.
A complicare la risoluzione della crisi è la posizione ambivalente dell’America sui compagni da scegliere per vincere la sua nuova partita mediorientale. Se a livello strategico infatti una collaborazione con l’Iran suona come lo sbocco più logico, i malumori dei vecchi amici sono un fattore da non sottovalutare nel decidere quale politica disegnare per le future mosse.
Proprio in questi giorni il premier israeliano Benjamin Netanyahu si è recato negli Stati Uniti – dove il presidente Obama e il suo staff lo hanno sostanzialmente snobbato per via dei rapporti non esattamente idilliaci tra i due governi – per rispolverare la consueta retorica antiraniana, sapendo benissimo di trovare ampie sponde in molti politici d’oltreoceano.
Cercando di tenere un piede in due scarpe il segretario di Stato John Kerry si è recato in Arabia Saudita per rassicurare il nuovo (non poco acciaccato) re Salman sull’alleanza dei loro paesi. Tutto ciò mentre all’orizzonte si profila un nuovo negoziato sul nucleare iraniano. In caso di accordo Riyad e Gerusalemme potrebbero diventare ancora più nervosi e Washington dovrà di conseguenza agire con molta cautela nei loro confronti, perché una loro collaborazione nel marasma iracheno e siriano è fondamentale almeno quanto quella con Teheran.
Per contro un fallimento del negoziato – il che non è da escludere visto il clima da nuova guerra fredda tra l’Occidente e il principale alleato iraniano, ovvero la Russia – potrebbe compromettere il destino del raffazzonato di Baghdad, il quale in mancanza di una legittimazione condivisa dalla comunità internazionale rischierebbe di finire fuori controllo esattamente com’è successo con le milizie libiche, portando ai risultati che tutti conosciamo.