Nel pieno della fuga generale erano gli ultimi ad essere rimasti in una Libia che fatichiamo ogni giorno di più a definire come uno Stato. Per un senso di responsabilità o per degli interessi ritenuti più importanti della loro stessa incolumità gli italiani erano diventati una presenza irriducibile, nonché uno degli ultimi contatti accreditati tra questo disgraziato paese e il mondo esterno.
Alla fine hanno dovuto abbandonare anche loro la scena, testimoniando con questa dipartita il fallimento totale della primavera libica e di tutte le belle speranze che l’avevano accompagnata. Ora si evoca persino l’eventualità di un nuovo intervento militare a mandato internazionale, di cui l’Egitto di al-Sisi ha già dato un primo assaggio bombardando le postazioni jihadiste nell’est del paese per vendicare i cristiani copti uccisi dai jihadisti locali. Considerando gli effetti del primo intervento di quattro anni viene da chiedersi se ne valga nuovamente la pena.
I fatti hanno dimostrato che non è bastato detronizzare un sanguinario dittatore, come non è bastato eleggere un’Assemblea Costituente, scrivere una nuova Costituzione e formare poi un governo rivelatosi impotente ad esercitare la propria autorità sulle decine di milizie armate fino ai denti.
A differenza del 2011 inoltre il nemico non è uno solo come piace tanto alla nostra narrazione, bensì due. Uno di loro è molto sfuggente trattandosi dei simpatizzanti libici dell’Isis, che esattamente com’è successo in Siria stanno approfittando del caos imperante per imporre il loro radicalismo su una legalità pressoché inesistente.
Tale vuoto è dovuto in buona parte dal secondo dei nemici della nuova Libia, vale a dire la profonda divisione politica che si traduce con l’esistenza di due governi rivali: quello uscito dalle ultime elezioni insediato a Tobruk e quello ‘rivoluzionario’ che continua ad operare a Tripoli e che non è riconosciuto dalla comunità internazionale. Questa spaccatura riflette in sostanza quella tra i gruppi di guerriglieri che dalla caduta dell’ex dittatore ad oggi hanno preso in ostaggio le istituzioni sino a disintegrare l’unità nazionale.
Per mettere fine a questo bagno di sangue di cui si è avuto coscienza solo ora da più parti – spesso a seguito di macabre esecuzioni sullo stile dei ‘colleghi’ terroristi mediorientali – si sta invocando una missione sotto l’egida dell’Onu. Ma per avere più chance della coalizione dei volenterosi che contribuì a far fuori il Colonnello Gheddafi questa nuova avventura dovrà partire dalla consapevolezza che ci vorrà molto più di una campagna militare per stabilizzare la Libia.
Come prima cosa bisogna assicurarsi di disarmare veramente i guerriglieri, un lavoro di sicuro non facile e che chiederà molta pazienza, tenacia e soprattutto tempo. Una volta neutralizzati gli elementi più esplosivi si potrà finalmente ripartire da un processo di riconciliazione nazionale che però non sarà lineare come tendiamo ad illuderci in Occidente, come se i meccanismi democratici attecchissero ovunque per una loro efficacia intrinseca ed universale. E ci vorrà molto tempo anche per quello.
Se chi spinge per salvare la Libia avrà il coraggio e la costanza di andare fino in fondo può darsi che una luce dal tunnel prima o poi la si riesca a trovare. Ancor più importante è che siano coinvolti tutti gli attori regionali, perché mandare i soldati sull’onda emotiva del momento (leggi bombardare o invadere per vendicare singole esecuzioni o stragi) o per sconvolgere una sfera d’influenza come fu sostanzialmente l’intervento di quattro anni fa finiremo per rivedere lo stesso film di oggi.