Arabia Saudita – Il panino di sabbia

Salman“Il re è morto! Viva il re!” si diceva un tempo ad ogni trapasso di un monarca. “Chissà quanto durerà il prossimo” verrebbe da aggiungere parlando della casta degli al-Saud, i quali hanno appena vissuto un grave lutto con la scomparsa di re Abdullah bin Abdulaziz, che se fosse sopravvissuto fino ad agosto avrebbe festeggiato contemporaneamente 10 anni di regno e ben 91 primavere.

Ora gli succede il fratello Salman (nella foto qui sopra), che di primavere ne ha ‘solo’ 79, non proprio una garanzia di stabilità politica per la più potente petromonarchia del Medio Oriente. Ma a minacciare il futuro dell’Arabia Saudita non è soltanto l’età avanzata che contraddistingue sempre i suoi leader, quanto una serie di manovre politiche del passato che invece di accrescerne l’influenza regionale gli si potrebbero ritorcere contro in modo fatale.

Impegnati da oltre trent’anni in una lotta di egemonia con l’Iran – una sorta di riedizione della rivalità tra l’impero ottomano e quello persiano – i sauditi non hanno risparmiato mezzi e risorse per arginare la penetrazione del nemico, compreso l’uso del terrorismo per indebolire governi ostili che gli Stati Uniti hanno tollerato per non danneggiare troppo le reciproche relazioni.

Questo almeno finché i terroristi non hanno iniziato a colpire insistentemente anche l’Occidente, spingendo l’America di George W. Bush ad intervenire nell’area. All’inizio le azioni americane recavano un beneficio a Riyan, perché andava ad eliminare un loro nemico come Saddam Hussein. A lungo andare però la modifica dello status quo iracheno avrebbe potuto causare non pochi grattacapi, poiché la pretesa d’instaurare una democrazia a Baghdad aveva buone chance di instaurare un governo di maggioranza sciita, ossia filo iraniano.

Per evitare che la ‘mezzaluna sciita’ – definizione per indicare un fronte tra Iran, Iraq e Siria – che divenisse realtà il governo saudita ha puntato molto su gruppi di estremisti per indebolire il governo iracheno, che non a caso dopo il ritiro delle truppe occidentali che ne garantivano la sopravvivenza ha fatto rapidamente scivolare il paese nel caos.

Contemporaneamente a questo sviluppo s’inseriva il terremoto della primavera araba, un movimento che non è stato solamente una rivolta a favore della democrazia, ma anche la prima vera sfida all’equilibrio regionale, in particolare da parte del Qatar che sperava grazie ai Fratelli Musulmani di ritagliarsi una propria influenza a scapito di arabi e iraniani.

Il tentativo del piccolo emirato alla fine è fallito e ha lasciato dei vuoti politici di cui i principali attori in gioco hanno tentato di sfruttare in modo più o meno fallimentare. L’Arabia Saudita ad esempio ha tentato di ripetere nella Siria lo stesso meccanismo sperimentato in Iraq, ossia finanziare dei militanti estremisti per dare la spallata finale al filo iraniano Assad.

Alla fine tuttavia ha finito per perdere completamente il controllo delle sue creature che sono diventate il famigerato Stato Islamico, i cui orrori non si discostano molto da alcune misure di repressione del regno ultraconservatore come la decapitazione in pubblico. Esaltati dalle proprie vittorie contro degli stati falliti come l’Iraq e la Siria, gli ormai celebri terroristi in nero sono divenuti una potenza autonoma che mira a conquistare tutto il Medio Oriente, compresa l’Arabia Saudita che è custode dei luoghi santi di Medina e la Mecca.

Constatata la riluttanza occidentale a tornare con i piedi sulle sabbie mediorientali – al massimo sui cieli con bombardamenti dalla discussa utilità – gli al-Saud corrono ai ripari progettando un muro di oltre mille chilometri sul confine settentrionale, neanche fossero gli imperatori cinesi che si vogliono proteggere dalle incursioni delle tribù mongole.

Negli stessi giorni dell’agonia di re Abdullah giunge però una nuova sconvolgente notizia per la sicurezza del regno. Questa volta viene da sud, da quello Yemen di cui non si parlava più molto come se la primavera araba avesse trovato un equilibrio abbastanza solido in Tunisia. E invece da tempo, ne avevamo parlato anche noi, covavano delle feroci tensioni tra il governo e la minoranza sciita degli Houthi.

Dopo mesi di lotta e di guerriglia gli Houthi sono riusciti alla fine a rovesciare il governo di Sanaa, guadagnando così la supremazia politica nel paese. Ora il futuro dello Yemen è più incerto che mai, mentre per Riyad si profila all’orizzonte l’emergere di uno vicino molto più ostile di un tempo. A peggiorare il quadro c’è il fatto che lo Yemen è a due passi dal covo di un altro pericoloso gruppo terrorista, i somali di al-Shabaab, i quali avrebbero sconfinato più volte da un lato all’altro del golfo di Aden e nel disordine attuale potrebbero avere vita più facile nel farlo.

Lambiti a nord da un caos in continua espansione e a sud da un vuoto politico che nel migliore dei casi potrebbe ad un governo filo sciita, l’Arabia Saudita si ritrova praticamente accerchiata su tutti i lati. Certo, esistono ancora dei potenziali amici come l’Egitto di al-Sisi o Israele, ma come gli Stati Uniti i loro interessi convergono fino ad un certo punto impegnati come sono a risolvere le proprie difficoltà interne. La scomparsa di re Abdullah dovrebbe indurre la dinastia ad abbandonare un ciclo che oltre a seminare terrore e instabilità – curiosi i commenti dei leader occidentali che lo elogiano come garante di pace e stabilità – ha lasciato in eredità un totale fallimento politico per loro stessi. Sempre che gli eventi non dimostrino che sia ormai troppo tardi per rimediare.

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