Con il recente proscioglimento in appello dell’ex rais Hosni Mubarak dall’accusa per aver ucciso centinaia di manifestanti nel 2011 la parabola politica egiziana sembra aver compiuto il suo ciclo per tornare esattamente al punto di partenza. Come se non fosse successo proprio niente in questi ultimi quattro anni.
All’indomani della sentenza il procuratore generale ha parlato di errori dei giudici e ha annunciato un imminente ricorso alla Corte Suprema per calmare una piazza il cui fallimento ha comunque ben poco da spartire con il destino del vecchio tiranno.
Da un governo di un ex generale si è passati al governo di un altro ex generale, nutrendo l’illusione di molti egiziani che un male conosciuto sia da preferire ad un rinnovamento imprevedibile e dunque caotico. Non è detto però che gli ‘anticorpi’ che hanno funzionato passato siano destinati a funzionare anche con il malessere sociale di oggi.
Malgrado l’esito catastrofico della primavera egiziana essa ha comunque avuto il merito di aprire una breccia nel muro politico eretto da sessant’anni di governi militari. Purtroppo a causa di quest’eredità storica qualunque forza alternativa ai generali difficilmente avrebbe potuto fare molto meglio dei Fratelli Musulmani, gli unici ad aver eletto nell’Egitto moderno un presidente senza aver maturato prima una brillante carriera militare.
Il resto è storia nota: la sconsideratezza di Morsi e il clima di scontro continuo che hanno accompagnato il suo breve regno (2012-2013) hanno condotto prima alla sua caduta e infine all’elezione lo scorso giugno dell’ex Comandante delle Forze armate Abd al-Fattah al-Sisi. Il risultato delle presidenziali ha trovato una calorosa accoglienza da parte di molti egiziani che rimpiangevano la ‘stabilità’ del vecchio ordine, come pure della comunità internazionale, a cui in fondo mancava un Egitto solido e (fin troppo) sotto controllo.
Eppure la nostalgia per un passato più rassicurante evita di fare i conti con i problemi che ogni cambiamento traumatico lascia dietro di sé. Sebbene al-Sisi goda di un consenso diffuso tra la popolazione ci sono pure parecchi egiziani che continuano a non accettarlo, perché molti dei problemi sociali ed economici che hanno scatenato le rivolte del 2011 sono rimasti gli stessi o sono addirittura peggiorati.
Ora che anche la situazione politica è entrata in una fase di stallo e con essa l’aspirazione a cambiare le cose in molti hanno deciso di non continuare più la loro lotta in modo pacifico e tranquillo semplicemente perché sanno di non avere la possibilità di competere con la brutale repressione dei militari (in questi giorni ad esempio 200 sostenitori di Morsi sono stati da poco condannati a morte).
La conseguenza più diretta è che sempre più giovani in mancanza di meglio decidono di abbracciare il terrorismo, specialmente quello vicino alla causa dello Stato Islamico, come ha fatto il gruppo Ansar Beit al-Maqdis attivo nella penisola del Sinai e responsabile di numerosi attentati contro le forze di sicurezza. Una minaccia che non va affatto sottovalutata avendo ad est un Medio Oriente in preda all’anarchia e ad ovest una Libia in putrefazione.
Insomma il ritorno dei militari al potere è avvenuto in un tessuto sociale e un quadro internazionale che rispetto ai tempi di Mubarak è molto più fluido e sfuggente di prima. Il pugno di ferro di una volta potrebbe dunque non essere sufficiente a far dimenticare le aspirazioni di miglioramento che sono esplose nella primavera araba. Se il governo di al-Sisi dovesse continuare ad ignorare queste istanze per il bene dei suoi alleati in divisa – i quali detengono la maggior parte dell’economia egiziana – il terrorismo rampante potrebbe alimentare tensioni sociali a livelli che farebbero impallidire la confusione dell’èra Morsi.