Brasile – Entusiasmo alla deriva

Former president Lula da Silva congratulates Brazil's President and Workers' Party presidential candidate Rousseff after disclosure of the election results, in BrasiliaAlla fine è stata una battaglia all’ultimo colpo. E se l’è aggiudicata ancora una volta la pupilla di Lula, Dilma Rousseff che si riconferma presidente battendo lo sfidante Aecio Neves, dal quale si distanzia però per soli tre milioni di voti. Altro che i dodici milioni di preferenze in più con cui aveva trionfato quattro anni fa al primo turno e non al ballottaggio com’è successo in questa tornata.

Cos’è successo rispetto ad allora per essersi mobilitata un’opposizione molto più consistente del passato? La Rousseff ha vinto, ma la vittoria tutto sommato modesta (51,60%) suggerisce che non può sottovalutare un paese sempre più nervoso e disilluso del miracolo carioca.

Sono cambiate molte cose da quando il Brasile inaugurò l’èra Lula e non solo i margini di vittoria, che con il vecchio leader superavano tranquillamente il 60% dei voti. Da paese relativamente marginale nel contesto internazionale, a parte il fascino dei calciatori, del carnevale e delle donne brasiliane, il nuovo secolo ha innalzato questo gigante dell’Amazzonia ad un potenziale leader dell’America Latina, scalzando lentamente il ruolo egemonico che gli Stati Uniti vi hanno esercitato durante il Novecento.

Tutto questo grazie alla scoperta di ricchi giacimenti di gas e petrolio al largo delle coste brasiliane, nonché di uno sviluppo sociale che lo rendeva un modello sempre più appetibile da parte dei vicini, in primis chi diffidava dalla soluzione chavista che dopo la morte del suo caudillo è praticamente esplosa come una bolla.

La doppietta mondiali di calcio-olimpiadi conquistata da Brasilia sembrava sul punto di archiviare quella che alcuni chiamano “sindrome del bastardino”, ovvero quel complesso d’inferiorità che impedirebbe ai brasiliani di sentirsi alla pari con i grandi. Poi qualcosa si è rotto.

Anni di sussidi economici che hanno traghettato milioni di persone dalla quasi indigenza ad una maggiore dignità sociale non sono bastati a proteggere il Brasile non appena il vento ha smesso di soffiare a poppa. La crisi economica ha svelato una manodopera scarsamente produttiva, una burocrazia farraginosa e corrotta e un sistema d’infrastrutture inadeguato per le grandi ambizioni della sua classe dirigente.

Il quadro fosco ha inevitabilmente spaventato gli investitori, facendo scendere il valore delle azioni dei colossi nazionali come Petrobas. Ma a seminare ancora più incertezza è stato quello che avrebbe dovuto essere il cavallo di battaglia dei socialdemocratici guidati dalla Rousseff, ovvero il popolo. Nonostante i traguardi raggiunti in questi anni la società brasiliana versa in una situazione di profonda diseguaglianza, tanto che secondo l’apposito indice Gini si collocherebbe in una posizione peggiore di paesi come il Ruanda.

Le rivolte di questi mesi, che non hanno risparmiato neppure la (non tanto allegra per i verdeoro) festa calcistica, hanno dimostrato come una fetta consistente dei brasiliani si senta ancora esclusa da una crescita di cui avrebbe beneficiato una cerchia molto più ristretta. Segnali allarmanti per chiunque politico, specialmente per chi è stato sponsorizzato da uno dei presidenti più popolari della storia brasiliana.

Con la vittoria di Dilma Rousseff si profila per lei un dilemma molto complicato da ricomporre: continuare a favorire i generosi programmi sociali per calmare il popolo a scapito della sostenibilità economica o abbracciare quest’ultima sperando che gli eventuali successi di lungo termine vengano prima di rivolte che potrebbero diventare incontrollabili? A lei e al suo governo il compito di evitare al Brasile il ritorno nel tunnel dal quale era appena uscito.

 

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