Sono indispensabili per fabbricare la maggior parte delle tecnologie green (pannelli solari, pale eoliche o auto ibride), anche se per trovarle si rischia una catastrofe ambientale. Ma il loro utilizzo spazia in tantissime altre applicazioni, tra cui elettronica, medicina e ovviamente anche militare, che è una delle ragioni principali dell’interesse nei loro confronti.
Stiamo parlando delle terre rare, un insieme di 17 elementi chimici (scandio, ittrio e 15 appartenenti alla serie dei lantanoidi) che a dispetto della scarsa attenzione mediatica nei loro confronti potrebbero diventare un terreno (si perdoni il gioco di parole) di contesa geopolitica del XXI secolo come lo sono oggi petrolio e gas.
Il motivo di questa loro crescente importanza non sta tanto nel fatto che, come suggerirebbe il loro nome, vi siano delle riserve molto limitate. In realtà si chiamano così perché non essendo concentrate in natura come gli altri elementi richiedono delle tecnologie molto costose per essere estratte in quantità sufficienti per essere commercializzate.
Le difficoltà di estrazione e i rischi ambientali ad essa connessi hanno progressivamente ridotto gli investimenti che i paesi occidentali hanno dedicato a questa risorsa, aumentando in modo esponenziale invece la quota di produzione della Cina che ha deciso di scommettervi fin dai tempi di Deng Xiaoping (1978-1992).
Ciò ha portato Beijing a disporre oggi di un monopolio quasi totale (95%) su queste risorse, concentrate in buona parte nella miniera settentrionale di Bayan Obo, che da solo copre oltre il 40% delle riserve mondiali di terre rare.

Inevitabilmente questa situazione di forte squilibrio a favore della Cina ha portato a delle conseguenze che hanno destato subito allarme tra i paesi importatori. Una di esse è stata la decisione dal 2009 del governo cinese d’imporre dei tetto alle esportazioni di terre rare, che ha fatto salire drasticamente i prezzi anche del 1000%, scatenando le proteste di Stati Uniti, Europa e Giappone, a sua volta colpito da un blocco temporaneo per motivazioni politiche che hanno causato seri danni alla sua economia.
Questi paesi hanno presentato allora un ricorso al Wto, di cui la Cina fa parte, ma prima che esso venisse accolto lo scorso marzo, il governo di Bejing è corso ai ripari provvedendo a rialzare la quota di export e facendo così calare i prezzi delle terre rare.
Le preoccupazioni in merito al suo monopolio non cessano però di far discutere e non solo per motivi commerciali. Come detto prima le terre rare servono in tanti ambiti, tra cui quello militare per quanto riguarda droni, tecnologia laser o sistemi di trasmissione di ultima generazione.
Il dubbio che serpeggia tra le potenze occidentali è che la Cina possa da un lato approfittare delle sue riserve per modernizzare il proprio apparato militare a basso costo, dall’altro far cassa sul bisogno che ne hanno gli amici e soprattutto i rivali. A questi ultimi starebbe persino cercando di strappare i giacimenti che si trovano nel loro cortile di casa, come ha dimostrato il recente interesse di investitori cinesi per delle miniere di terre rare in Grecia.
Un altro fattore che favorisce i cinesi è il riavvicinamento alla Russia, un paese anch’esso molto interessato ad entrare nel mercato delle terre rare. Le ragioni che hanno spinto Mosca a prendere questa direzione sono tante: diversificare la propria produzione troppo incentrata sugli idrocarburi e una quota di riserve che equivarrebbe ad almeno un quinto di quelle mondiali. A tale proposito sono stati lanciati dei progetti ambiziosi che puntano a sfruttare aree come la Jacuzia o la penisola di Kola entro il 2020.
Gli sviluppi della crisi ucraina e il successivo allontanamento della Russia dall’Occidente fa temere a qualcuno che l’abbraccio cinese del gas possa gettare le basi anche di un cartello congiunto sulle terre rare. Per Mosca ciò sarebbe l’unico modo per accedere indirettamente agli sbocchi commerciali che gli sono ora negati, relegandola tuttavia ad un umiliante ruolo di junior partner (i tempi della sudditanza di Mao a Stalin sono ormai storia antica).
In attesa di capire le mosse di Cina e Russia, gli Stati Uniti e l’Europa cercano di studiare delle soluzioni che riducano la loro dipendenza da questi paesi. Alcune miniere in America sono state riaperte e si punta a giacimenti alternativi come in Sudafrica, Brasile, Vietnam o Afghanistan, dove però non è garantita la presenza di tutti i ‘magnifici’ 15+2.
Un altra prospettiva sarebbe quella di riciclare le terre rare oppure di ridurre il loro impatto tecnologico, ma per il momento non si è giunti ancora a risultati soddisfacenti. La sfida per le terre rare non è che agli inizi.