Posti di blocco ovunque, migliaia di poliziotti sulle strade e persino l’interruzione temporanea dei servizi cellulari. Non si direbbe proprio un clima favorevole per celebrare il 67º anniversario dell’indipendenza del Pakistan dal dominio britannico e probabilmente questa giornata non sarà ricordata come il momento di festa che dovrebbe essere.
La tensione politica cresciuta in questi ultimi giorni ha alzato infatti lo stato di allerta a livelli preoccupanti, tanto che qualcuno teme l’eventualità di un colpo di stato militare, com’è avvenuto già in passato con tre golpe riusciti (1958, 1977 e 1999) e altrettanti falliti. Esiste davvero il rischio? Ma soprattutto cosa sta succedendo a Islamabad e dintorni che suscita così tanta preoccupazione?
Nella capitale e in varie città della regione settentrionale del Punjab è in atto una protesta massiccia da parte dei maggiori partiti di opposizione: i centristi del Tehrik-i-Insaf (PTI) guidati dall’ex campione di cricket Imran Khan e gli islamici moderati del giurista Muhammad Tahir-ul-Qadri. Le due forze per ora non marciano insieme, ma hanno indetto due manifestazioni separate che hanno in comune le critiche all’attuale premier Nawaz Sharif.
Entrambi chiedono le sue dimissioni per motivazioni che differiscono sostanzialmente nella forma. Khan afferma ad esempio che il governo abbia vinto le elezioni dell’anno scorso (dove il PTI si è piazzato al terzo posto) con massicci brogli e respinge le offerte di Sharif d’istituire un’apposita commissione d’inchiesta per chiedere direttamente la fine dell’esecutivo in carica.
Tahir-ul-Qadri invece si spinge molto più in là. La sua Marcia per la rivoluzione punterebbe a rovesciare il governo evocandone i fallimenti nel combattere mali come la disoccupazione, la corruzione o la costante interruzione dei servizi energetici e non ha esitato ad invocare a questo scopo persino l’intervento militare.
Quest’ultimo appello è forse quello che desta più preoccupazione visti i trascorsi citati poco sopra, sebbene proprio i sostenitori del giurista stiano subendo gli effetti più duri della repressione della polizia. Oltre ad aver registrato almeno sei morti nei recenti scontri con le forze di sicurezza adesso gli verrebbe impedito anche di lasciare la città di Lahore, a differenza del suo collega Khan che invece ha potuto iniziare la sua marcia verso Islamabad contando di portare non meno di 100.000 persone.
Se i numeri dovessero essere effettivamente questi l’evento rappresenterebbe una contestazione veramente importante contro Sharif, il cui governo è impegnato anche a gestire la difficile campagna militare contro i talebani nel Waziristan, dove si calcola che mezzo milione di persone sono state costrette ad abbandonare le proprie case. Un esercito di profughi che rischia di diventare una bomba sociale ancora più potente della sfida lanciata oggi da Khan.
A ciò si aggiungono anche le difficili sfide internazionali che un governo debole avrebbe difficoltà a portare avanti in un momento per esse più decisivo che mai. Da un lato c’è il tentativo di normalizzare le relazioni con l’India, che dopo gli entusiasmi dell’incontro congiunto tra Sharif e il neopremier indiano Narendra Modi ha visto un momento di attrito lunedì con nuovi scontri tra i militari dei rispettivi paesi nel Kashmir e nel Punjab.
Dalla parte opposta si profila all’orizzonte l’incerto futuro dell’Afghanistan, di cui non si conosce ancora il nome del futuro presidente e dove sono forti i timori che in assenza di una forte presenza internazionale possa verificarsi uno scenario simile a quello iracheno. Tale eventualità sarebbe potenzialmente destabilizzante per il Pakistan, il quale condivide con il vicino afghano una forte comunità pashtun che potrebbe condurre ad una saldatura analoga a quella creatasi in Medio Oriente tra jihadisti siriani e iracheni.
La forza indubbiamente superiore dell’esercito pakistano rispetto all’omologo iracheno tuttavia potrebbe allontanare di molto le probabilità di quest’ipotesi. È più verosimile invece proprio l’opzione dell’ennesimo golpe militare, sempre che Sharif riesca ad abbracciare l’arte del buon governo disinnescando così la maggior parte delle mine sul suo cammino. Le prossime ore, ma soprattutto i prossimi mesi saranno decisivi.