Nulla ha potuto la massiccia rivolta di Gezi Park, né gli scandali finanziari nel suo partito o i moniti del presidente della Repubblica Abdullah Gul, che i più maliziosi dicono voglia metterlo in difficoltà per prenderne il posto alla guida dell’AKP. Smentendo le previsioni, o piuttosto le speranze di chi intravedeva l’inizio del suo declino politico, il primo ministro Recep Tayyip Erdogan è riuscito ad aggiudicarsi le prime elezioni presidenziali in Turchia a voto popolare con oltre il 50% dei voti, superando con almeno 5 milioni di preferenze il rivale kemalista Ekmeleddin Ihsanoglu.
Si rafforza così il lunghissimo regno di quello che viene soprannominato il nuovo sultano della Turchia, salito al potere dal lontano 2003, quando la Turchia e con essa il Medio Oriente sembravano un altro mondo rispetto a quello che rappresenta oggi. Il successo di Erdogan in parte è dipeso proprio dai cambiamenti che hanno attraversato la regione in questo lasso di tempo. Ma senza la giusta attenzione le stesse opportunità di ieri potrebbero rapidamente tramutarsi in un serio pericolo.
Per spiegare il successo del primo ministro non ci vogliono grandi spiegazioni. Nonostante le discusse riforme in senso autoritario e islamista, ciò che ai turchi hanno apprezzato di più della sua amministrazione sono stati i progressi economici che hanno riportato il loro paese ad essere una potenza regionale che conta.
Approfittando del clima di fiducia che ha accompagnato il primo governo eletto dopo anni di golpe militari, Erdogan ha avviato una progressiva liberalizzazione dell’economia che ha attirato numerosi investimenti, i quali hanno contribuito a modernizzare le infrastrutture e i servizi. Ciò ha reso la Turchia un hub sempre più attraente tra i mercati europei e quelli asiatici, riportando Ankara ad essere una potenza regionale di cui non si può più far a meno.
La soddisfazione per la dignità recuperata dopo decenni d’irrilevanza internazionale ha fatto soprassedere molti elettori sugli episodi più discussi dell’aspra competizione interna, che dalla lotta legittima contro i militari responsabili dei precedenti colpi di stato è passata a prendere sistematicamente di mira ogni forma di opposizione ideologica all’AKP e al suo leader. Inoltre gli scandali o le rivolte venivano spesso rilette dai principali media come un complotto ordito da forze straniere – su tutti l’influente intellettuale residente negli Stati Uniti, Fethullah Gulen – che mirerebbero a destabilizzare la Turchia esattamente come succedeva ai tempi dell’impero ottomano, non trauma ancora oggi molto sentito.
Rinnovando la sua fama di politico indistruttibile, Erdogan ora si prepara a traghettare la Turchia verso il centenario della Repubblica. È curioso notare come egli rappresenti l’antitesi del fondatore Ataturk, che bandì le radici islamiche (tra cui l’alfabeto arabo) per modernizzarla e avvicinarla agli standard occidentali prima che venisse fatta definitivamente a pezzi, come ci andò molto vicino con gli accordi di Sykes-Picot.
Da questo punto di vista si potrebbe dire che Erdogan forse si è avvicinato di più a quest’obiettivo del suo illustre predecessore, almeno per quanto riguarda il decennio da poco trascorso, quando si parlava ancora con trasporto di un ingresso di Ankara nell’Unione Europea e di quando era un modello ammirato nel resto Medio Oriente. Oggi quel traguardo si è allontanato parecchio e con lui anche l’equilibrio favorevole alla crescita economica della Turchia, che mantiene comunque alcuni grandi potenziali.
Tra i punti più positivi ci sono senza dubbio i futuri progetti di gasdotto e oleodotto sul suo territorio che dovrebbero collegare i giacimenti azeri e turkmeni all’Unione Europea in cerca di fonti alternative alla Russia. Questo aiuterebbe a mantenere un qualche contatto con un’Occidente rimasto molto freddo dalla repressione di Gezi Park, nonché dalle misure islamiste e illiberali che stanno colpendo la società turca in ogni suo aspetto. La cattiva reputazione del governo Erdogan potrebbe infatti rallentare gli investimenti esteri di cui ha tanto beneficiato fino ad ora, fino a costringerlo all’alternativa di fare un passo indietro o di guardare ad altri mercati.
La seconda scelta presenta tuttavia delle complicazioni non indifferenti e per ovvie ragioni. Da un lato è difficile pensare che la Turchia si butti nelle braccia del rivale russo, di cui teme peraltro l’abbraccio con la piccola Armenia, a sua volta rivale dell’amico azero, con cui rischia ogni giorno di tornare in guerra a causa del Nagorno-Karabakh. A sud la situazione è ancora peggiore con la Siria e l’Iraq (fino a poco tempo fa il secondo partner commerciale di Ankara, dopo la Germania) in preda alla marea jihadista, che ha in parte contribuito a gonfiare con il suo sostegno indiretto ai ribelli islamisti che combattevano Assad. L’ascesa dell’ISIS non solo sta portando all’avvento di un Kurdistan iracheno indipendente che potrebbe un giorno rivendicare la sovranità anche sui fratelli turchi, ma in caso di un ulteriore espansione del califfato islamico quest’ultimo potrebbe attentare alla sicurezza della Turchia, aprendo a sviluppi imprevedibili in tutti i sensi.
L’ultima vittoria di Erdogan arriva dunque in un momento dove tutte le premesse che hanno costruito il suo successo hanno lasciato il posto ad una serie di sfide che chiederanno molta lucidità e cautela per uscirne indenne. La vera domanda da farsi è se ci riuscirà ‘sudando’ (come gli piace definirsi da presidente) per salvaguardare qualche residuo di stato di diritto o ceda alla tentazione di sacrificarlo definitivamente sull’altare della sicurezza.