Tripoli è in fiamme. Ieri un deposito di carburante di Tripoli ha preso fuoco e i pompieri sarebbero riusciti a spegnerlo in tempo se i combattimenti delle vicinanze non li avessero costretti a ritirarsi, mentre l’incendio si propagava ad un altra cisterna rendendo la situazione un incontrollabile rischio ambientale. La Libia è in fiamme. L’elezione del nuovo Parlamento sembrava potesse dare nuova legittimità alle deboli istituzioni di Tripoli, ma l’implacabile guerra di fazione ha rapidamente smorzato ogni entusiasmo e avvicinato la minaccia di uno smembramento del paese.
Le situazioni descritte sopra sono solo apparentemente diverse, ma hanno in comune due elementi che hanno accompagnato la Libia del dopo-Gheddafi come una maledizione: l’illusione che le cose potessero normalizzarsi prima o poi e il momento in cui essa deve fare i conti con delle milizie che stanno prendendo il sopravvento in un paese che non è mai rinato. Inutile semplificare tutto nell’ennesimo scontro tra islamisti e democratici. Sarebbe meglio parlare di una guerra tra bande di predoni.
All’origine degli scontri esplosi in questi ultimi giorni – gli ultimi di una lunga serie, a cominciare alle provocazioni del generale Haftar nell’est del paese o dalla temporanea occupazione di ministeri e uffici governativi – c’è la battaglia per controllare l’aeroporto di Tripoli, teatro già in passato di altri episodi di violenza. L’obiettivo non è importante soltanto per le sue naturali implicazioni strategiche, ma perché rappresenta lo sbocco per l’estero dei ricchi traffici illeciti (oro, petrolio o droga) di milizie e clan.
Questo spiega come mai a fronteggiarsi non siano più i ribelli da in lato e il governo libico dall’altro, ma direttamente la milizia di Zintani (comunque vicina al governo) che controlla l’aeroporto contro quella islamista di Misurata. La contesa politica in atto si è dunque abbassata di livello, nel senso che le autorità ufficiali vi giocano ormai un ruolo di secondo piano, preferendo arroccarsi nei loro palazzi da dove chiedono sempre più disperatamente aiuto alla comunità internazionale.
La risposta dei vecchi ‘amici della Libia’ non è stata tuttavia molto entusiasmante. Gli Stati Uniti, temendo un ripetersi del drammatico assalto al Consolato americano di Bengasi di due anni fa che è costato la vita a quattro persone, hanno ritirato tutto il loro personale diplomatico da Tripoli. Poche ore dopo sono stati imitati dai principali stati europei, tra cui Regno Unito, Germania, Francia e Italia, che hanno invitato i loro connazionali a lasciare la Libia in massa.
Difficile intuire cosa faranno i caldi fautori dell’intervento umanitario di tre anni fa contro Gheddaffi dopo questa frettolosa ritirata. L’impressione è che disillusi e pentiti di una rivoluzione che hanno contribuito a portare fino in fondo, ma che come altre nell’area (tranne per ora la Tunisia) si è votata al fallimento, gli occidentali se ne tengano alla larga fino a quando non avranno un interlocutore legittimato non dalle elezioni, ma da un bagno di sangue.
E che succede se a trionfare dovessero essere gli islamisti che fanno accapponare la pelle di tanti a Washington? Il problema più importante è però quanto potrebbe durare questo stillicidio di morte. L’estensione dei combattimenti all’aeroporto di Tripoli in vaste zone della capitale e l’entità delle forze in campo prefigurano uno scontro che potrebbe degenerare in una guerra civile come quella in Siria, che è ancora in corso nonostante il silenzio tombale su di esso.
Se si vuole chiudere in tempo un nuovo, pericoloso buco nero in una regione già troppo caotica bisognerebbe tentare una nuova riconciliazione nazionale, con le principali potenze internazionali che s’impegnano a fare i garanti di un processo che per funzionare veramente avrà bisogno di molto più che di un paio di elezioni ‘democratiche’. Purtroppo in tempi di spending review non solo economica, ma anche diplomatica è più probabile che ci si accontenti di tavolini di pace in cui il giorno dopo una stretta di mano perlopiù simbolica si ricomincia subito a sparare.