Dall’incertezza dei negoziati di Gaza a quelli nel cuore dell’Africa. Dopo oltre un anno di guerra civile nella Repubblica Centrafricana è arrivato finalmente un primo accordo per fermare la violenza endemica nel paese. O quasi. Ieri nella capitale del Congo Brazzaville – che prende il nome dall’esploratore italiano Pietro Paolo Savorgnan di Brazzà e ha visto pochi giorni fa la visita dell’attuale premier Renzi – si sono riuniti infatti più di duecento rappresentanti delle opposte fazioni per trovare un punto d’intesa nella guerra che oppone da un lato la maggioranza cristiana e dall’altro i guerriglieri islamisti di Séleka.
Guardando meglio l’accordo emerge tuttavia come esso, a parte l’impegno a deporre le armi per entrambe le fazioni, non entri troppo nel dettaglio su quanto dovrà succedere da qui al prossimo anno, quando ci saranno le elezioni politiche che daranno un nuovo governo legittimo al paese. Basterà questa prima stretta di mano a placare gli animi o i troppi buchi che si lascia dietro sono destinati a cancellare l’accordo come se fosse stato scritto sulla sabbia?
Un primo segnale negativo in questo senso viene dal fatto che durante i negoziati in Congo, nella Repubblica Centrafricana erano in corso nuove violenze nella città meridionale di Bambari, dove due guerriglieri Séleka sono caduti in un agguato e uno di loro ha perso la vita. Inoltre alla conferenza di Brazzaville non hanno partecipato tutti i gruppi islamisti e quelli che si sono tirati fuori hanno negato ogni validità a quanto concordato nell’incontro.
Mohammed Mouassa Dhaffane, uno degli ufficiali Séleka, la fazione che si è resa protagonista lo scorso marzo di uno spettacolare colpo di stato degenerato poi in guerra civile, si spinge addirittura a chiedere in cambio della pace la spartizione del paese in un nord a maggioranza musulmana e un sud dominato dai cristiani. Una proposta che è stata immediatamente respinta dai principali delegati a Brazzaville, tra cui il presidente congolese Denis Sassou e il generale delle forze peacekeeping dell’Unione Africana Jean Marie Michel Mokoko.
La proposta desta non poche preoccupazioni, specialmente considerando che la tregua manca dei requisiti essenziali per reggere, ovvero una road map sul disarmo delle fazioni e per l’eventuale normalizzazione politica. In assenza di questi due elementi è difficile credere che le forze in campo resteranno tranquille, soprattutto se a seguito di questa giornata di negoziazione dovesse seguire un lungo stallo.
Del resto la popolazione centrafricana non si può permettere di attendere con serenità la solita flemma della diplomazia. In 16 mesi di scontri e malgrado l’intervento di forze straniere come la Francia e l’Unione Africana si calcola che vi siano stati migliaia di morti e feriti, oltre a centinaia di stupri su donne e bambini.
Ma un dato ancora più grave sono le 800.000 persone che hanno trovato scampo nei campi profughi, di cui una parte si trova nei paesi confinanti Ciad e Camerun, dove le tensioni, il rischio di contrarre malattie come il diarrea o malaria e gli abusi anche da parte di chi dovrebbe proteggerli sono all’ordine del giorno. Più di un milione di abitanti inoltre soffre di grave malnutrizione, una catastrofe umanitaria ingiustamente ignorata dai media di tutto il mondo.
Di fronte ad uno scenario così drammatico la comunità internazionale non può permettersi assolutamente di abbassare la guardia. E questo nonostante l’accordo di Brazzville, o forse sarebbe il caso di dire proprio per la sua natura lacunosa. Trascurare i gravi problemi sociali che sono dietro al conflitto politico – visto che negli ultimi vent’anni vi sono state oltre una dozzina di crisi interne forse a qualcuno il caos fa comodo per meglio controllare il ricco tesoro del sottosuolo composto da oro, uranio e l’immancabile petrolio – significa ignorare una polveriera che se dovesse esplodere finirebbe per travolgere un vicinato troppo fragile per resistere all’onda d’urto. Mali semper docet.
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