Mentre l’avanzata dell’ISIS in Iraq prosegue in modo sempre più feroce – agghiaccianti le immagini di esecuzioni di massa da parte dei miliziani che ricordano le deportazioni dei momenti più bui del Novecento – in un altro continente il terrorismo ha scatenato una guerra a prima vista meno intensa, ma con un prezzo di sangue che non ha nulla da invidiare alla carneficina che sta avvenendo nel cuore del Medio Oriente.
In soli due giorni due attacchi terroristici nella zona di Mpeketoni, una città costiera del Kenya occidentale, hanno causato poco meno di 60 morti, in prevalenza membri del forze dell’ordine e fedeli della maggioranza cristiana. Secondo il presidente Uhuru Kenyatta i responsabili della strage sarebbero delle non meglio precisate “reti politiche locali”, ma ben pochi hanno dubbi sul fatto che il vero mandante sia il gruppo fondamentalista islamico di origine somala al-Shabaab.
“Il Kenya è una zona di guerra e chiunque voglia visitarlo lo farà a suo rischio e pericolo” è stato il monito che i guerriglieri vestiti di nero (esattamente come i loro colleghi dell’ISIS) hanno lanciato tra il primo attacco di lunedì e quello di questa notte. Al-Shabaab si rivolge direttamente ai turisti che hanno imparato a conoscere il paese per località come il monte Kilimangiaro o le bellezze della Rift Valley che attraversa più di un paese dell’Africa orientale.
La scelta di parlare ai turisti non è casuale visto che ogni anno fanno incassare all’economia keniota circa un miliardo di dollari, una ricchezza che i terroristi sperano di ridimensionare con le minacce all’incolumità degli stranieri in visita. Questa strategia ha cominciato a dare i suoi frutti (un calo del 10-12% delle visite) specialmente dopo il tragico attacco lo scorso settembre al centro commerciale Westgate di Nairobi, che ha provocato quasi 60 morti e più di 170 feriti.
Quello è stato anche il momento in cui si è iniziato a parlare più diffusamente della minaccia di al-Shabaab nel paese, anche se in realtà gli attacchi terroristici erano iniziati già da molto prima. Più esattamente da quando il Kenya decise di lanciare nel 2011 l’operazione Linda Nchi per cacciare le truppe di al-Shabaab, allora molto forti nelle regioni meridionali di confine.
L’esito di quell’intervento risulta controverso per molte ragioni. Per prima cosa c’è il timore del governo transitorio somalo che la vera missione di Nairobi sia di consolidare la propria influenza sull’area attorno al porto di Chisimaio, una delle regioni economicamente più promettenti (a livello petrolifero tanto per dirne una) della Somalia.
Ora si dà il caso che in quest’area sussistano delle rivendicazioni territoriali mai sopite tra la Somalia e il Kenya, che la seconda potrebbe essere tentata di avanzare se il governo di Mogadiscio dovesse definitivamente collassare. I segnali in questo senso purtroppo non mancano, tra cui la profonda divisione in cui versa il paese dopo anni di guerra civile che hanno portato una regione, il Somaliland, ad essere de facto indipendente dalle autorità centrali.
Inoltre la minaccia di al-Shabaab risulta essere tutt’altro che debellata, come dimostrano gli attacchi terroristici che lo scorso febbraio sono arrivati a colpire il compound presidenziale nella capitale somala. E qui arriviamo al secondo punto discutibile dell’operazione Linda Nchi, ossia l’effettiva messa in sicurezza di un’area che rischia di contagiare tanto l’Etiopia che il Kenya, due Stati a maggioranza cristiana che ospitano una significativa minoranza somala.
Il pericolo che questa minoranza possa simpatizzare con i ‘fratelli’ di al-Shabaab’ è sentito soprattutto in Kenya, dove essa è molto vulnerabile perché è composta in maggioranza da rifugiati somali che hanno attraversato il confine negli anni più sanguinosi della guerra civile del loro paese.
Nel solo campo di Dabaab, che si trova nel Nord-est del paese, si calcola che vi siano circa mezzo milione di persone, praticamente un esercito. E il malcontento verso gli ospitanti cresce di giorno in giorno per le difficoltà del governo keniota di far fronte da solo a quest’emergenza e per i frequenti abusi che subiscono da parte delle forze dell’ordine locali, i quali approfittano del clima di sospetto che grava sui rifugiati per uscirne il più delle volte impuniti.
Ora che al dramma dei profughi somali si è aggiunto quello del terrorismo dentro i propri confini, viene da chiedersi se la missione lanciata in Somalia abbia davvero pagato per la sicurezza (e gli interessi di Nairobi) della regione oppure abbia esposto il Kenya ad un pericolo che con il passare del tempo sta diventando incontrollabile. Da solo il Kenya ha ben poche speranze di uscirne indenne, a meno che non si decida a collaborare con i rivali di un tempo come l’Etiopia.
Il precedente dell’avvicinamento tra Stati Uniti e Iran per la questione irachena, sempre che si traduca alla fine in qualcosa di concreto, potrebbe servire da buon esempio per frenare un contagio che, esattamente come avviene in Medio Oriente, si trova in prossimità di zone ‘calde’ come Sud Sudan, Repubblica Centrafricana o Nigeria. Far saldare queste crisi equivarrebbe a scatenare un terremoto geopolitico che non si accontenterebbe del solo continente africano.