2014-1914 – I grandi imperi secondo Limes

20140523-001950-1190168.jpgPerché dopo cent’anni non ci decidiamo a lasciarci alle spalle la memoria dei vecchi imperi, di un passato che viene spesso strumentalizzato? Proprio perché l’attualità e la storia continuano a subire questi usi distorti.

Lo scambio di battute sopracitato tra un ospite del pubblico e il direttore di Limes Lucio Caracciolo è abbastanza esemplificativo dell’incontro che c’è stato oggi a Roma, presso la fondazione di studi romanisti Marco Besso, dedicato al nuovo numero della rivista di geopolitica ‘2014-1914 l’eredità dei grandi imperi.

All’incontro, sul cui tema pochi giorni fa c’è stato addirittura il primo festival di Limes nella città di Genova, oltre a Caracciolo era presente l’esperto di geopolitica americana Dario Fabbri, autore di un interessante articolo sui tedeschi di America durante la Grande Guerra, un aspetto che non manca di aspetti interessanti. Ma il tema portante resta l’interrogativo sulle conseguenze che questa guerra quasi bistrattata dal grande pubblico e paradossalmente dal nostro stesso paese, che ne è stato uno dei vincitori, continua a determinare per gli equilibri mondiali.
L’aspetto decisivo è senza dubbio il crollo dei quattro grandi imperi russo, tedesco, austroungarico e ottomano. Se per i primi due c’è chi, guardando agli eventi più recenti, dice che siano stati solo temporaneamente cagionevoli, gli altri due hanno lasciato un vuoto del quale ancora oggi si sente l’eco. Una prova ne sarebbero le fallimentari primavere arabe e i contenziosi territoriali che gli Stati dell’Europa orientale faticano ancora a mettere da parte.
Nel primo caso si è assistito ad un breve momento d’oro del capo del governo turco Erdogan, che assieme al suo ministro degli Esteri Davutoglu aveva sperato che il modello turco potesse ispirare le rivoluzioni in corso nell’area, le quali stavano mettendo fine all’ordine che si era costruito proprio dopo il tramonto del sultanato. Ankara sperava di cogliere il processo in corso per ristabilire un’influenza pari o superiore ai tempi più gloriosi dell’impero turco.
Sfortunatamente per Erdogan questi si sono rivelati in poco tempo soltanto dei vagheggiamenti, non soltanto per il caos prodotto dalla difficile transizione, ma per l’instabilità che si è diffusa in seno alla stessa Turchia, dove le proteste di Gezi Park, le intercettazioni contro il partito di Erdogan e per ultima la tragedia dei minatori di Soma stanno ridimensionando pesantemente le ambizioni del primo ministro turco.
Altra tragedia seguita al disfacimento della Sublime Porta sono stati naturalmente i Balcani, dove la pacifica convivenza di un tempo ha lasciato in eredità una serie di ferite aperte come la diaspora albanese in Macedonia, Montenegro, Grecia e Kosovo, dove è scoppiata anche una guerra che dopo la pace ha visto sviluppi non meno problematici. Molti sottovalutano a questo il ruolo che l’Italia ha avuto a causa della sua guerra del 1911 per la conquista della Libia.
La relativamente facile vittoria del nostro paese contro i turchi in preda ad una crisi apparentemente inarrestabile diede infatti enorme fiducia alle piccole potenze balcaniche nate dalle guerre di fine Ottocento, scatenando le loro mire espansionistiche contro il morente sultanato con un trionfo, che forse ha esaltato a sua volta i fanatici cresciuti a (poco) pane e (tanto) nazionalismo. E uno di loro, meno un anno dopo la fine delle ostilità nei Balcani, avrebbe ucciso a Sarajevo l’arciduca Francesco Ferdinando, aprendo le porte al ‘suicidio dell’Europa’.
Per quanto riguarda l’Ungheria, come ho avuto modo di testimoniare io stesso quando andai a Budapest tre anni fa, il mito della Grande Ungheria è più vivo che mai. Lo si può vedere nelle numerose cartine esposte nei negozi che raffigurano i confini del Regno magiaro ai tempi degli Asburgo, nella mitologia cristiano-medioevale che arriva a lambire la stessa Costituzione e nelle pretese che il premier Orban o i suoi alleati populisti di Jobbik continuano a muovere verso i vicini rumeni, slovacchi o ucraini.
Anche l’Ucraina in preda alle divisioni interne sconta un pezzo dell’eredita asburgica, con la città di Leopoli epicentro di quella Galizia filoccidentale che non si riconosce affatto nel mondo slavo e non a caso è la culla di quegli stessi neonazisti che avrebbero spinto la Russia ad intervenire ‘in difesa’ dei suoi fratelli russi in Crimea e, nel caso le cose dovessero degenerare, anche nelle regioni orientali di Kharkiv, Donetsk e Lugansk.
Tre di questi imperi decaduti facevano parte delle potenze sconfitte, anche se l’esito della contesta sarebbe potuto essere molto diverso senza l’intervento al fianco dell’Intesa di un attore inaspettato come gli Stati Uniti. Come ci spiega l’esperto Fabbri, alla vigilia della Grande Guerra il loro coinvolgimento, che avrebbe cambiato le sorti della giovane democrazia americana e del mondo, era tutt’altro che scontato. Protetta com’era da due oceani e abituata ad una politica estera circoscritta al solo continente americano, l’America aveva persino un esercito non molto invidiabile con soli centomila uomini e un numero di poco superiore anche nella Guardia Nazionale, il corrispondente dei nostri Carabinieri, per non parlare della Marina.
Oltre alla debolezza militare esisteva un secondo fattore non indifferente, ovvero la radicata presenta di cittadini di estrazione tedesca, che formavano praticamente la maggioranza della popolazione, superando addirittura il ceppo anglosassone. Questo dava vita a costumi culturali come manifestazioni d’affetto per il Kaiser Guglielmo II o il canto dell’inno americano nella lingua di Goethe. Ma a preoccupare di più le autorità di Washington era la divergenza di opinioni sull’atteggiamento da prendere verso la carneficina che si stava consumando al di là dell’Atlantico.

20140523-002053-1253839.jpgCon i tedeschi e gli irlandesi che patteggiavano per gli Imperi Centrali, gli ispanici e gli afroamericani che volevano abbandonare l’Europa alla punizione autoinflitta che si meritava da lungo tempo per il suo degrado morale e gli affaristi delle coste favorevoli all’Intesa l’amministrazione del presidente Woodrow Wilson piuttosto che rischiare lo scoppio di una nuova guerra civile – era passato a malapena mezzo secolo da quel trauma – preferì starsene nel suo splendido isolamento, nonostante temesse le conseguenze di una vittoria di entrambi gli schieramenti: il trionfo del protezionismo se avesse vinto l’Intesa o il salto nel buio per la fine della supremazia britannica in caso di trionfo germanico.
Questo finché il verificarsi di tre eventi non fecero cambiare del tutto idea agli americani. Il primo fu l’incidente della Columbus, un’irruzione del marzo 1916 da parte dei rivoluzionari messicani di Pancho Villa che attaccarono l’omonima città del New Mexico, mettendo a nudo le vulnerabilità degli Stati Uniti. L’evento diede il via ad un progressivo rafforzamento dell’esercito che si sarebbe rivelato provvidenziale quando, all’inizio dell’anno seguente, la guerra indiscriminata della Germania contro qualsiasi rotta commerciale nell’Atlantico irritò sempre più gli americani. Ma la goccia che fece traboccare il vaso fu la scoperta, con il contributo inglese, del telegramma Zimmerman, in cui i tedeschi chiedevano al Messico di schierarsi al loro fianco in cambio della restituzione di alcune province perse nella Cessione del 1848.
Quest’ultima provocazione avrebbe tolto agli Stati Uniti ogni indugio per entrare nel conflitto, durante il quale il governo costrinse migliaia di cittadini tedeschi a cambiare il loro cognome e a farsi assimiliare, pena la detenzione in campi di concentramento come quello della Georgia. Il momento avrebbe inaugurato anche una fase ciclica di politica internazionale che da allora fino ad oggi continua ad alternare fasi di isolazionismo ad interventismo. Wilson alla ritirata degli anni Venti, da FDR agli anni Cinquanta, per continuare con le oscillazioni intorno al Vietnam, la retorica infuocata di Reagan o l’unilateralismo di Bush jr. a cui è succeduto il cauto pragmatismo di Obama, che ha spinto il suo segretario di Stato Kerry a definire l’atteggiamento degli USA quello di una ‘nazione povera’.
Prima si è citata l’Italia a proposito del suo ruolo prima dello scoppio della guerra. In realtà il suo contributo anche nell’imminente massacro sarebbe stato decisivo, come stanno riconoscendo anche alcuni storici dopo una lunga indifferenza. A dare un’idea del valore che ebbe il nostro paese nello scontro basti pensare quanto fosse diffusa all’epoca la convinzione che non saremmo mai riusciti a battere un impero potente come quello degli Asburgo, che effettivamente furono ad un passo dallo sbaragliarci dopo la disfatta di Caporetto nell’ottobre del 1917. Ma contro ogni aspettativa invece della resa il nostro esercito riuscì a tener duro fino ad infliggere un anno dopo agli austriaci una sconfitta a Vittorio Veneto che determinò lo sfaldamento del loro esercito ormai sfinito. Eppure nonostante questo trionfo e l’apporto che diede a formare un germe di coscienza nazionale tra popoli culturalmente ancora molto lontani tra loro, l’esperienza della Grande Guerra tende ad essere dimenticata. La Festa della Vittoria del 4 novembre si è tramutata in una più generica Festa delle Forze Armate, mentre la memoria di quelle drammatiche giornate viene affidata quasi esclusivamente ai luoghi che li vissero in prima persona. Quasi fosse una triste conferma che l’Italia insiste a non rappresentarsi come tale, ma da semplice contenitore di localismi che iniziarono a dialogare tra loro proprio sotto le trincee.
La Grande Guerra perseguita noi come anche il resto del mondo, dove gli scenari simili a quelli che annunciarono la ‘guerra che doveva finire tutte le guerre’ non mancano. Dai pericolosi vuoti di potere nel Mediterraneo, nel Sahel o in Ucraina alle feroci contese nel Pacifico, in cui molti analisti dicono che gli Stati Uniti e la Cina stiano giocando una partita analoga a quella che si disputò all’inizio del Novecento tra Regno Unito e Impero guglielmino. Indizi molto chiari in questo senso sarebbero il recente viaggio in Obama in Estremo Oriente e le pulsioni militariste del Giappone.
Sebbene la Cina preferisca orientare le sue mire verso l’Asia centrale e non abbia un esercito abbastanza forte per sostenere il confronto con l’Occidente – si prevede un aggancio con gli USA per il 2030 – i pericoli non mancano. Rispondendo ad una mia domanda sulla criticità dell’area, il direttore Caracciolo ha citato ad esempio l’ossessione di questi paesi di non perdere la faccia (concetto espresso con la parola ‘diumianzi‘ in cinese) di fronte all’avversario, un orgoglio che rischia di far andare la situazione fuori controllo come avvenne con la trappola delle alleanze nel 1914. La capacità attuale dei nostri leader di pensare a tatticismi senza una strategia, ma soltanto per appagare le rispettive opinioni pubbliche potrebbe tramutarsi prima o poi nel fiammifero di una nuova polveriera.
Un ultima nota riguarda la mancata presenza del generale Fabio Mini, ex comandante della missione Nato in Kosovo e anche lui collaboratore della pubblicazione con illuminanti pezzi di strategia geopolitica e non solo. Purtroppo il generale alla fine non ha potuto partecipare per un impegno all’ultimo momento: davvero un peccato.

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