Libia, Siria, Sud Sudan, Repubblica Centrafricana, Ucraina. Questi paesi sono soltanto gli ultimi di una lunga lista in cui la questione dei diritti umani ha fatto discutere, specialmente per il modo con cui la comunità si è rapportata per ciascuno di essi. Un approccio che è ancora ben lontano dall’essere coerente, il che non stupisce visto che lo sviluppo di meccanismi appositamente creati per questo tema si è avviato solamente in tempi recenti.
Per descrivere la genesi e le difficoltà che ancora incontrano gli organismi dediti alla difesa dei diritti umani nel mondo c’è stato oggi un incontro intitolato ‘I tre pilastri della responsabilità di proteggere e l’azione delle Nazioni Unite per la tutela dei diritti umani’ al Dipartimento di Scienze Politiche dell’Università degli Studi di Roma Tre, in collaborazione con il Budapest Centre for the International Prevention of Genocide and Mass Atrocities.
Proprio da parte del Budapest Centre sono intervenuti il Direttore per la ricerca Enzo Maria Le Fevre Cervini e la Prof.ssa Jennifer Welsh, Consigliere Speciale sulla Reponsabilita di Proteggere delle Nazioni Unite, la quale ha esordito con una breve panoramica sull’evoluzione degli enti deputati a questo tema.
Come si è accennato in precedenza, questi sono sorti solamente nell’arco degli ultimi vent’anni, a seguito di tragedie come il genocidio del Ruanda o le stragi interetniche compiute nell’area dell’ex Jugoslavia. Tali eventi hanno sensibilizzato fortemente le opinioni pubbliche e il dibattito che ha visto contrapposti da un lato la westfaliana supremazia della sovranità nazionale e dall’altro il problema se questa debba essere violata in caso di gravissime violazioni dei diritti umani che sono riconosciuti e tutelati dalla maggioranza della comunità internazionale.
Un primo spartiacque in questo senso è stato l’intervento della NATO nel Kosovo per impedire l’aggravarsi di quella che si annunciava come una vera e propria pulizia etnica contro i serbi di etnia albanese da parte del governo di Slobodan Milosevic. La guerra, che avrebbe causato non pochi dissapori tra l’Occidente e alcune grandi potenze come la Russia e la Cina, avrebbe spinto di lì a poco le Nazioni Unite ad avviare un processo per creare degli strumenti il più possibile condivisi per far fronte a situazioni del genere e superare le ambiguità del cosiddetto ‘intervento umanitario’.
Fu così che nel giro di alcuni anni, con il Summit mondiale del 2005 e un successivo rapporto del 2009, si sarebbe giunti ad elaborare tre pilastri sulla responsabilità di proteggere, che sono i seguenti:
1. Lo Stato ha la responsabilità primaria di proteggere la popolazione da genocidi, crimini di guerra, crimini contro l’umanità e pulizia etnica, così come dall’istigazione a questi crimini.
2. La comunità internazionale deve incoraggiare ed assistere gli stati nell’assunzione di tale responsabilità.
3. La comunità internazionale ha la responsabilità di utilizzare appropriati mezzi diplomatici, umanitari ed altri per proteggere le popolazioni da questi crimini. Se uno stato fallisce manifestamente nel compito di proteggere la sua popolazione, la comunità internazionale deve essere preparata ad intraprendere azioni collettive per proteggere la popolazione stessa, in accordo con la Carta dell’ONU.
Nonostante il risultato raggiunto dal punto di vista dei valori, esistono però numerose difficoltà per la loro effettiva applicazione, come la Prof.ssa Welsh ci tiene a specificare. Per prima cosa manca una chiara volontà del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, in cui la questione dei diritti umani viene frequentemente delegata ad altri soggetti o viene sacrificata agli interessi sempre più divergenti delle grandi potenze, dove spesso la valutazione di cosa possa essere definito come pulizia etnica o crimine di guerra non trova tutti d’accordo.
Qualche tentativo per chiarire le interpretazioni in materia è stato fatto parallelamente alla nascita di organismi come il Consiglio ONU per i Diritti Umani, fondato all’inizio del 2006. Tra i punti che hanno incontrato una qualche condivisione Cristiana Carletti, Docente di Diritto Internazionale all’Università Roma Tre, cita la nozione di sviluppo sostenibile, secondo il quale le società attuali devono garantire condizioni di equilibrio ed equità anche per le generazioni future.
Come poi questo si concretizzi non trova purtroppo risposte univoche: c’è chi richiama il legame tra pace e sviluppo, a sua volta determinato dal giusto, ma al contempo difficilissimo equilibrio tra giustizia, governance e opportunità socioeconomiche; chi dà maggiore importanza alla solidità delle istituzioni, come fanno spesso gli aiuti internazionali che negli scenari di crisi si preoccupano più di tenere in sella i governi che la stabilità del tessuto sociale; chi proprio contro questo discorso vorrebbe al contrario incentivare prima gli investimenti e i progetti sociali.
Tale varietà di opinioni finisce per complicare, quando non paralizzare, le capacità d’intervento anche negli scenari più conflittuali che richiederebbero tempestività nell’azione. Ancora una volta pare dominare la logica di potenza, laddove l’iniziativa tende ad esserci solamente se uno degli schieramenti in gioco si trova in evidente vantaggio rispetto all’altro, un discorso che per alcuni farebbe la differenza tra quanto avvenuto in Libia, in cui l’azione internazionale sebbene di parte è stata rapida, e quanto al contrario è successo in Siria, la quale assiste al proprio massacro senza che il mondo muova quasi un dito.
Malgrado questi impedimenti la Welsh si dice ottimista sulle prospettive a difesa dei diritti umani, che hanno raggiunto solamente una prima fase di maturazione con la nascita di diversi enti o ONG – lo stesso Budapest Centre è stato fondato appena tre anni fa – in attesa che il dibattito sensibilizzi fasce più ampie della popolazione sul problema, fino a rendere le iniziative a favore della difesa dei diritti umani qualcosa che la politica non potrà più permettersi di ignorare.
Trovandosi in prossimità di parecchi contesti a rischio, l’Italia è uno degli attori che dovrebbero mobilitarsi maggiormente per la creazione di meccanismi efficaci nella difesa dei diritti umani. La menzione del nostro paese, come spiega Gian Ludovico Di Martino de Montegiordano, diplomatico di lungo corso e attuale Presidente del Comitato Interministeriale per i Diritti Umani, non è dovuta a considerazioni esclusivamente geografiche.
L’Italia vanta infatti una lunga tradizione in materia, a cominciare dai primi trattati del XVIII secolo contro la tortura e la pena di morte (Dei diritti e delle pene) del giurista milanese Cesare Beccaria. Tornando in tempi più recenti, De Martino, ricorda il nostro impegno in vari campi, che vanno dai diritti delle donne e dei Rom, al traffico di persone o le missioni di sicurezza all’estero (Libano su tutte). Ciò si concretizza nella promozione di dibattiti a livello internazionale o in contributi di massimo livello in ambito militare, economico o logistico, per esempio con la base ONU di Brindisi o quella di Vicenza, dove è presente un centro di addestramento speciale dei Carabinieri, che serve a formare le forze di sicurezza di vari paesi africani.
Requisiti del genere dovrebbero perciò spronare l’Italia ad approfittare del suo imminente semestre di presidenza del Consiglio Ue per trasformare l’Europa in uno dei soggetti più autorevoli per la difesa dei diritti umani. Una condivisione a livello continentale aiuterebbe a contrastare, se non addirittura a prevenire eventuali crimini di guerra o genocidi negli scenari più disparati. Questo chiarirebbe anche parte delle ambiguità sui termini e le condizioni citati in precedenza, che qualche paese potrebbe sfruttare con il fine ultimo di perseguire delle politiche espansionistiche.
Saremo veramente in grado di farlo? In una campagna elettorale, soprattutto qui, in cui si dedica più tempo a fare promesse elettorali (neanche fosse un elezione anticipata) che a dibattere veramente di Europa e di cosa essa voglia essere è lecito dubitarne. Ma rimandare o evitare di prendere una posizione comune in un mondo che diventa sempre più imprevedibile e pericolosamente tentato di rispolverare l’antica rivalità tra grandi potenze ci potrebbe costare davvero molto caro.