“L’unico sfogo possibile per noi era andare a pisciare davanti alla proprietà del presidente” racconta Fouad Rouehia, giornalista di origini siriane evocando il suo passato. Si dice che gesto molto simile, fatto da un bambino chiamato Hamza al Khatib su una foto di Assad, gli sia costato momenti di atroce tortura, l’evirazione e infine la morte. Un orrore che per alcuni è stato una delle micce delle proteste che di lì a tre anni avrebbero trasformato la Siria in un ginepraio di equilibri di forza, ma soprattutto di opinioni.
Obbiettivo dell’incontro ‘Syria: le voci di chi non si arrende’ all’ex caserma Sani a Roma, a cura dell’Università degli Studi La Sapienza e della rivista Osservatorio Iraq, Medio Oriente e Nord Africa che aveva come sua rappresentante la giornalista Cecilia Dalla Negra, ha provato proprio a ricostruire il contesto che ha accompagnato questa drammatica resa dei conti, le divisioni e le contraddizioni che hanno interessato non solo le fazioni in lotta, ma anche chi dice (a parole, coi soldi o con le armi) di appoggiarle da fuori.
Protagonista dell’appuntamento di oggi, che fa parte di un ciclo d’incontri denominato #BuildingInformation sul Medio Oriente e il Nord Africa, è stato dunque Rouehia, il quale ha spiegato come quarant’anni di regime e d’indottrinamento siano risultati in un sistema così pregnante nella società da rendere il suo abbattimento un impresa a dir poco titanica.
Un sistema dove la corruzione è diffusa perché necessaria ad integrare stipendi magrissimi, dove i siriani fin dalla più tenera età vengono addestrati in base a canoni militari (quando non fascisti), dove la paura di essere spiati fa sospettare persino del venditore di bruscolini all’angolo della strada, dove la legge d’emergenza in vigore da decenni impedisce a più di tre persone di mettersi a fare una chiacchierata in pubblico senza essere accusati di essere dei traditori dello Stato.
La complessità di questo regime non interessa soltanto la quotidianità. Chi sceglie di schierarsi al fianco degli Assad non appartiene esclusivamente la minoranza alauita della loro famiglia, ma coinvolge in maniera trasversale anche il resto delle oltre venti comunità che formano la società siriana. Una specie di oligarchia mafiosa che sceglie di associarsi alla repressione perché teme che senza Assad non ci sarebbe più futuro neppure per loro.
Non stupisce dunque che fin dagli albori delle rivolta molti ambienti vicini al regime si siano preoccupati di dipingere immediatamente gli elementi antigovernativi come una minaccia per l’unità nazionale o alleati dei fondamentalisti islamici. Non importa se poi molti di questi ultimi (ma non i prigionieri politici) sono stati rilasciati dallo stesso regime in amnistie mirate a riguadagnare un po’ di consenso. Il livello di questa propaganda ha raggiunto vette di rara assurdità, come associare i gol di Messi a indicazioni cifrate ai ribelli o lanciare falsi allarmi di camionette di terroristi pronti a far massacro dei cristiani.
A questo riguardo due episodi hanno fatto discutere. Uno è molto recente, ovvero la crocifissione di alcune persone che si credeva fossero di religione cristiana, salvo scoprire in seguito che si trattava di membri del laico Esercito Siriano Libero (ESL) giustiziati dalle milizie dell’ISIS (Rouheia li apostrofa semplicemente come ‘barbari’), gruppo attivo tra la Siria orientale e l’Iraq occidentale.
L’altro episodio riguarda invece le suore dell’antichissimo monastero di Santa Tecla, nel villaggio di Maalaula, per i sostenitori del regime vittime di un tragico rapimento, per altri che hanno provato a scavare più a fondo invece sarebbero state scortate lontano dal fronte dai gruppi islamisti per essere messe al sicuro. Anche qui dunque la verità è stata la prima vittima sacrificale di una guerra che il passare del tempo ha complicato enormemente.
Allo stato attuale delle cose esistono tante Sirie, sebbene per provare a semplificare le cose nell’ottica della libertà di espressione ne esistono tre. Una è quella del regime che gode del sostegno di Iran e Russia, l’altra dei territori occupati dall’ISIS e i loro alleati che ti prendono a frustate soltanto se ti scoprono con un pacchetto di sigarette in tasca.
C’è poi il Nord liberato dalle truppe ‘laiche’, forse il lato più interessante e razionale di questo orribile scenario. Qui, specialmente nella città Nord-occidentale di Kafr Nabl, dopo anni di soffocamento delle coscienze è esplosa infatti una creatività che ha cambiato il modo di fare notizia o satira rispetto a quando le massime speranze dei liberali erano riposte nella vasta produzione di telefilm che arrivavano a sfiorare anche i temi politici.
Il regime non è tuttavia l’unico protagonista di questa rinata libertà d’espressione. Altri soggetti riguardano i cosiddetti ‘alleati’ occidentali come l’ONU, gli Stati Uniti o l’Europa, dei quali emerge tutta l’impotenza o il ridicolo nel loro approccio verso una guerra sta diventando catastrofica quanto il conflitto del Ruanda. L’accostamento non è casuale. Il protrarsi di una violenza simile rischia di spaccare in modo irreversibile una società che per la sua composizione eterogenea finirebbe per non trovare più modo di convivere in maniera civile. Per rendere conto di questa percezione è forse più utile lasciarlo spiegare alle vignette seguenti che le parole.