Mentre i genitori delle studentesse rapite in Nigeria continuano a disperarsi per il governo di Abuja che brancola nel buio (o arresta chi lo critica troppo rumorosamente), il segretario di Stato americano John Kerry interviene sulla questione con parole solenni: “Faremo tutto il possibile, perché è la nostra responsabilità e la responsabilità del mondo”.
Certo sentirlo ad oltre 4000 chilometri di distanza non è la stessa cosa che farlo sul posto, perché Kerry ha parlato dalla lontana capitale etiope di Addis Abeba, dove ha iniziato il suo lungo tour in Africa. Il viaggio segue di poco quello del presidente Obama in Estremo Oriente, sebbene la scelta dei paesi interessati (Etiopia, Sud Sudan, Repubblica Democratica del Congo e Angola) sembra caratterizzarlo in maniera molto meno ambiziosa. Soprattutto perché i funzionari americani hanno toccato solo in modo indiretto gli scenari più problematici della regione, con l’unica eccezione del Sud Sudan.
Difficile dire se il tracciato sia stato condizionato da un eccessiva cautela o in parte dal tacito riconoscimento dell’adiacente ‘sfera d’influenza’ francese, dove il presidente Hollande si è reso protagonista di un deciso attivismo nel Mali e nella Repubblica Centrafricana. Di sicuro un passaggio quasi defilato nella regione per un uomo decisamente orientato sul Mediterraneo come Kerry – che avrebbe potuto ad esempio fare una tappa nel tormentato Nord Africa – suona quantomeno singolare.
Procediamo comunque con ordine. Come detto prima il segretario di Stato è approdato in Etiopia, un paese le cui ambizioni regionali sfortunatamente non vanno di pari passo con i progressi democratici. Alla vigilia dell’arrivo di Kerry infatti alcuni studenti e giornalisti critici del governo del premier Desalegn sono stati arrestati dopo che avevano protestato contro i piani urbanistici per l’ampliamento della capitale.
Nonostante un breve comunicato a favore dell’opposizione e della libertà di stampa da parte del portavoce di Kerry, Jen Psaki, all’incontro bilaterale sembrano aver prevalso le considerazioni strategiche. Questo perché l’Etiopia, alleato di lungo corso degli Stati Uniti, cerca sempre di distogliere l’attenzione dalle questioni interne al ruolo che sta svolgendo nella risoluzione dei conflitti in Somalia e in Sud Sudan, dove l’Occidente ha molti interessi ma anche parecchie difficoltà ad intervenire direttamente.
Nel primo caso l’Etiopia gioca una partita che la sta facendo configgere con il Kenya e l’Uganda, i suoi maggiori rivali nel Corno d’Africa che stanno approfittando a loro volta dell’inesistente stato somalo per impadronirsi delle sue risorse ed eventualmente plasmare un futuro alleato a loro immagine e somiglianza. Per quanto riguarda il Sud Sudan, paese ricchissimo di petrolio, la stessa Etiopia è divenuta la sede dei colloqui tra il governo del presidente Salva Kiir e il vicepresidente ribelle Riek Machar.
Gli scarsi risultati ottenuti dal dialogo hanno convinto molti della necessità di una missione guidata dall’Unione Africana, di cui Kerry è uno degli sponsor principali. Di sicuro non si può perdere più tempo: la guerra tra le due fazioni, esplosa alla fine dell’anno scorso per un ‘tentato colpo di Stato’ contro Kiir, ha seminato un clima di violenza inaudita con uccisioni, stupri e rapimenti indiscriminati. Questa catastrofe ha registrato finora migliaia di morti e non meno di un milione di sfollati, motivo per il quale Kerry ha lanciato un duro monito contro i responsabili di qualunque violenza a sfondo etnico, comprendendo tra essi anche gli stessi leader del conflitto, appartenenti a due differenti tribù locali.
Dopo il Sud Sudan è stata la volta della Repubblica Democratica del Congo, un paese solo in apparenza meno travagliato. Questo ‘gigante africano dai piedi d’argilla’ versa in realtà in uno stato di povertà e violenza endemica che non rende giustizia delle immense risorse di cui dispone. Purtroppo questa ricchezza invece di essere reinvestita in progetti sociali o infrastrutture, viene utilizzata prevalentemente come moneta di scambio per armare i militari governativi o i gruppi ribelli delle regioni orientali come il gruppo M23.
Come in Etiopia, qui Kerry si è trovato nella difficile posizione di dover conciliare esigenze di sicurezza con quelle di tipo politico. In questo caso gli sforzi sembrano essere andati di più nella seconda direzione, offrendo al presidente Joseph Kabila un aiuto di 30 milioni di dollari in cambio della sua rinuncia a modificare la costituzione per candidarsi così ad un terzo mandato consecutivo. Ben poco è stato fatto invece sulla questione dei ribelli nelle regioni orientali, limitandosi a dire che “si deve fare di più” e che “la pace non può venire dalla canna di una pistola”. Forse una visita in Ruanda e Uganda, accusati di essere gli sponsor occulti dei miliziani antigovernativi, avrebbe sortito un effetto migliore.
La visita in Angola si profila infine come un viaggio essenzialmente d’affari. In questo paese ricco di petrolio e membro dell’OPEC vi sono forti interessi da parte delle principali compagnie petrolifere americane (Chevron ed Exxon Mobil), che devono però far fronte alla spregiudicata concorrenza dei cinesi. Pechino non si accontenta di pagare l’oro nero, ma arriva a costruire anche intere città (talvolta fantasma) per conquistare il consenso della popolazione locale. Chissà se le parole di Kerry sugli aspetti ‘promettenti’ delle relazioni economiche reciproche basteranno a tenere testa a questa rivalità senza esclusione di colpi.
Quali conclusioni trarre da questo viaggio africano? L’impressione prevalente sembra essere quella di un impegno di routine che si accontenta di rinnovare gli impegni già presi senza aggiungere nulla. Un risultato così inerte può fare ben poco ad arginare il declino d’influenza occidentale sul continente africano di fronte a rivali decisamente più agguerriti e meno esigenti sulle questioni democratiche. Come dice un titolo di Al Jazeera America: “preferendo la sicurezza alla democrazia […] si rischia di non avere nessuna delle due”.
(Foto articolo AP, foto evidenza Reuters)