“Non avremo l’accesso al mare, ma lo abbiamo per lo spazio!”. Queste parole dell’ambasciatore del Kazakhistan Andrian Yelemessov forse riassumono meglio di ogni altro intervento lo spirito dell’incontro che si è tenuto oggi nella Sala della Santa Sede “Pio XI” a Roma, intitolato ‘C’è spazio per il futuro. Geopolitica dello spazio e nuove frontiere’.
A far partire questa discussione sulla nuova corsa allo spazio e di cosa questo significhi nella nuova era multipolare è stata la collaborazione tra diversi thinktank come il Nodo di Gordio – il cui direttore responsabile Daniele Lazzeri ha annunciato una prossima collaborazione per il 2015 tra la rivista e la Farnesina), il centro studi Vox Populi, che insieme hanno approfittato dell’appuntamento anche per presentare il loro volume ‘Da Baikonur alle stelle. Il Grande Gioco spaziale’.
Nella giornata, moderata dal Capo Ufficio Stampa del CNR, Marco Ferrazzoli, hanno partecipato anche l’Istituto Ricerche Studi Informazioni Difesa (ISTRID), con il contributo di ospiti provenienti da ambienti come Finmeccanica, il CNR e l’OCSE. La presenza di questi interlocutori non è casuale, visto che parlare di spazio in un’epoca che ha sorpassato da lungo tempo l’antico confronto bipolare non interessa più il solo ambito geopolitico.
Anzi per comprendere meglio la partita spaziale del XXI bisognerebbe iniziare ad interrogarsi sullo stesso concetto di geopolitica, come fa Giulio Prigioni, ex ambasciatore d’Italia in Bielorussia e Lituania e Presidente dell’Istituto “C.M. Cipolla”. Secondo Prigioni la diplomazia dovrebbe abbandonare il suo approccio classico fatto di rivalità e rappresaglie, per seguire invece il cosiddetto principio della coopetition.
La coopetition, o coopetizione, contiene nella propria morfologia tanto l’azione competitiva che quella cooperativa, un binomio che risponderebbe meglio alle dinamiche di un mondo che ha visto il moltiplicarsi degli attori principali e di conseguenza la propria complessità.
Dopo i tempi del confronto bipolare si è passati a quella che i cinesi chiamano la “diplomazia a geometria variabile”, dove i rapporti sono molto più ambivalenti che mai e sono interessati da fenomeni che dovranno ancora descrivere i loro effetti, come la finanza islamica. Questo se da una parte ha accresciuto la nostra interdipendenza, dall’altra, non si traduce nell’abbattimento dei rischi di una guerra, ma piuttosto ad una sua evoluzione più articolata, trovando un posto particolarmente importante proprio in un ambito come quello spaziale.
Che lo spazio rimanga importante in questo nuovo scenario non è un caso secondo l’esperto di geopolitica Andrea Marcigliano. Ciò sarebbe coerente con gli sviluppi degli ultimi anni, specialmente con le nuove tecnologie dell’informazione, che hanno visto l’importanza del territorio, antica posta di competizione tra le grandi potenze, arretrare rispetto a quella del soft power, ovvero il potere di persuasione. Lo dimostrano la genesi delle primavere arabe o la crisi Ucraina, fenomeni che oltre ad essere nati sulla rete non è più possibile far rientrare nell’ottica bipolare di una volta, un motivo per il quale si fatica anche molto di più a tenerli sotto controllo.
Il Kazakhistan in questo senso ha provato ad anticipare i tempi, scegliendo di mantenere buoni rapporti sia con la Russia che con la NATO nel pieno spirito della coopetizione. Emblema di queste mani tese agli antipodi è proprio la base di Baikonur, il più antico cosmodromo al mondo da cui sono partite missioni storiche come quella del primo satellite Sputnik o del primo uomo nello spazio, Yuri Gagarin.
La scelta del luogo, come racconta l’ambasciatore Yelemessov, non è stata casuale, trovandosi in condizioni molto favorevoli per il lancio nello spazio. Per questo anche dopo la dissoluzione dell’Unione Sovietica, Baikonur continua ad essere meta ambita per i programmi spaziali non solo della Russia (che paga un affitto annuale ad Astana), ma di molti altri paesi, compresi gli Stati Uniti.
Per il Kazakhistan l’industria spaziale e l’innovazione ad essa correlata rappresentano un settore dai grandi potenziali, addirittura più importante degli idrocarburi, al punto da aver messo in agenda per il prossimo 28 aprile il lancio di un proprio satellite, dove un ruolo non indifferente per la sua realizzazione lo ha giocato il nostro paese con Finmeccanica.
Secondo Pierfrancesco Guarguaglini, presidente di Finmeccanica dal 2002 al 2011, la sinergia tra Italia e Kazakhistan ha molti vantaggi per entrambi, coniugando l’eccellente knowhow italiano (che ha una storia lunga decenni, a cominciare con i satelliti SIRIO degli anni ’70) con i ricchi investimenti che Astana è disposta a dargli in cambio delle sue conoscenze.
Qualcuno si potrebbe chiedere se abbia ancora senso impiegare così tanto denaro in un’industria che molti associano a spedizioni dalle implicazioni apparentemente più avventurose che pratiche. In realtà quello che il grande pubblico dovrebbe capire, aggiunge il giornalista del Sole 24 Ore Augusto Grandi, è che le tecnologie sviluppate nello spazio hanno ricadute anche nella vita di tutti i giorni e gli esempi non mancano. Per citare il solo programma Apollo, si sono avute oltre centomila ritorni tecnologici che vanno dalla metallurgia all’elettronica, fino ai costumi da nuoto e alle macchine per filtrare l’acqua.
Purtroppo agli auspici a dedicarsi all’industria spaziale non corrisponde la giusta volontà da parte non solo italiana, ma anche europea. Se è vero che la voce non è tra le prime a subire i tagli della spending review, purtuttavia essa, non disponendo più di grandi industrie capaci di commercializzare le tecnologie spaziali, ha visto inevitabilmente il dimezzamento degli 800 milioni d’investimento dei tempi d’oro.
La conseguenza più diretta di questo declino è stata la riduzione del contributo che l’Italia dà all’Agenzia Europea Spaziale (ESA) ad un misero 10% del totale. Un modo per trovare nuovi fondi sarebbe quello di trovare le risorse a paesi emergenti come il Kazakhistan, la Malesia o i paesi del Golfo, senza concentrarsi troppo a competere con i grandi competitor britannici e francesi nello scenario europeo, dove il terreno peraltro non sembra più essere molto fertile.
Come spiega Riccardo Migliori, presidente dell’assemblea parlamentare OCSE, l’Europa manca di volontà politica per intervenire concretamente sull’argomento, delegando spesso la questione ai più preparati Stati Uniti. Questo non si ripercuote soltanto in termini di difesa e di sicurezza, ma rimanda pericolosamente la regolamentazione di un vero e proprio diritto spaziale (ad esempio non esiste un divieto di condurre in orbita armi batteriologiche o nucleari), moltiplicando i rischi e l’eventualità di un confronto diretto.
Eppure stando alle parole del vicepresidente della commissione Difesa del Senato, Sergio Divina, se l’Europa recuperasse attenzione al problema potrebbe ottenere dei risvolti davvero utili. Si pensi all’industria dei droni, utili non soltanto a scopo militare come avviene in Afghanistan o Pakistan, dove arrivano ad uccidere obiettivi alla stregua di cecchini dei cieli. Essi si presterebbero molto bene per il controllo ai flussi migratori del Nord Africa al posto delle più costose navi. La loro produzione creerebbe inoltre molti posti di lavoro più o meno specializzati. Per il presidente di ISTRID, Pierpaolo Valtorta, avere consapevolezza di questo non basta: ci vogliono investimenti (quelli ci dovrebbero essere con il programma Horizon 2020) e leader più lungimiranti a livello europeo. Che ciò si realizzi o meno è un mistero grande almeno quanto lo spazio che ancora ci attende lassù.