Tredici anni fa uno stimato professore d’Istanbul chiamato Ahmet Davutoglu ha pubblicato un libro che gli studiosi di politica turca degli anni successivi avrebbero spesso richiamato per spiegare l’ascesa apparentemente irresistibile della Turchia di Erdogan. Quel testo si chiama Profondità strategica e il suo autore, che nel 2009 sarebbe diventato l’attuale Ministro degli Esteri di Ankara, professava un approccio internazionale molto più intraprendente del passato.
Obiettivo primario della strategia di Davutoglu è quello di rafforzare i rapporti con gli Stati vicini per consolidare il ruolo della Turchia come ponte tra Europa e Medio Oriente, una collocazione per certi versi molto simile a quanto accadeva ai tempi d’oro dell’impero ottomano. Quando Davutoglu è diventato Ministro le sue idee sembravano aver trovato l’occasione di dare finalmente i loro frutti. Cinque anni e numerosi sconvolgimenti dopo sarà ancora così?
Due eventi hanno iniziato ad invertire una congiuntura così felice da rendere Ankara un interlocutore apprezzato tanto ad Occidente che ad Oriente. Il primo è stato l’incidente della Mavi Marmara dell’estate del 2010 e la conseguente spaccatura tra Turchia ed Israele, fino ad allora così in buoni rapporti da essere considerati quasi due alleati regionali. Il divorzio ha così aggravato l’incertezza (forse anche la capacità di gestire, se mai vi sarebbe potuta essere) di un’area che nel giro di pochi mesi sarebbe esplosa nelle rivolte che ne hanno cambiato per sempre gli equilibri.
La primavera araba è stato il momento di confronto più importante tra i piani di Davutoglu e la realtà concreta. Inizialmente gli sviluppi del Nord Africa sembravano dare ragione alla Turchia: i governi militari di Tunisia ed Egitto erano stati rimpiazzati da governi islamisti che ricordavano l’esperienza politica dell’AKP; anche la Libia di Gheddafi era caduta e la Siria di Assad sembrava destinata a fare la stessa fine; anche Giordania, Algeria, Marocco e Yemen avevano dovuto fare delle concessioni.
Per una Turchia stanca dei continui ritardi nel processo di adesione dell’Unione Europea, le rivoluzioni del 2011-12 sembravano profilare l’alternativa di far entrare nella sua orbita un insieme di Stati che potevano guardare ad essa come il nuovo modello da seguire.
Queste velleità, che qualcuno non esiterebbe a ribattezzare ‘neo-ottomane’ (termine osteggiato dallo stesso Davutoglu), hanno però subito una tremenda battuta d’arresto nel 2013. Prima c’è stato il colpo di Stato in Egitto che ha praticamente spostato all’indietro le lancette sulla valle del Nilo con il ritorno dei militari al potere; successivamente ha pesato il dietro front dell’Occidente contro Assad, dove la guerra civile per via dei profughi che fuggono al Nord e di traffici illeciti lungo il confine sta degenerando i rapporti tra Ankara e Damasco ad un livello tale da fargli scendere ad un passo dalla guerra. La contemporanea apertura degli Stati Uniti all’Iran di Rohani invece paventa l’emergere di un concorrente regionale che ha tutti i mezzi per mettere i bastoni tra le ruote alla Turchia e non solo.
Il rapporto con l’Occidente invece ha visto i partner europei passare dal cauto pragmatismo ad una nervosa ambiguità. Per prima cosa la Turchia – specialmente in questi tempi di guerra fredda 2.0 – rappresenta per l’Europa un importante corridoio energetico alternativo alla Russia, grazie anche al suo collegamento con un Caucaso (Georgia e l’Azerbaijan straricco di idrocarburi) rimasto ancora in rapporti amichevoli con Ankara nonostante gli sconvolgimenti che hanno colpito la stessa Turchia.
Gli sconvolgimenti appena citati non interessano soltanto quelli di livello internazionale. Non si possono infatti dimenticare le molte crepe che si sono aperte tra il popolo e il partito di Erdogan con le rivolte di Gezi Park, gli scandali finanziari e la furiosa campagna anticomplossita sfociata nella repressione contro internet e i social network. A dispetto di queste misure controverse – o grazie a brogli secondo qualcun’altro – il primo ministro è riuscito a spuntarla alle recenti elezioni amministrative, le quali gli aprono la strada verso le presidenziali nella speranza di prendere il posto del collega-rivale Abdullah Gul.
In tanti si chiedono cosa farà Erdogan se dovesse raggiungere quest’ultimo traguardo. Sceglierà nel pieno della soddisfazione personale di venire più incontro ai suoi avversari o rafforzerà una deriva dal sapore autoritario che lo ha isolato tanto dai mercati che da un’Unione europea ancora più tentata da sbattergli definitivamente in faccia le sue porte. Di sicuro per quanto riguarda la sua proiezione internazionale la Turchia si trova a dover ricominciare quasi tutto da capo.