Qualche settimana fa, in prossimità della festa delle donne, si è svolta nella Sala Tobagi a Roma una manifestazione della Federazione nazionale della stampa italiana (Fsni) per parlare di un caso che ha fatto molto scalpore in Somalia. Si tratta della drammatica vicenda di Faduro Abdulkadim Hassan, una reporter diciannovenne che lo scorso autunno è stata stuprata e invece di ricevere giustizia è finita in prigione. La giovane lavorava a Kasmo Radio, uno dei pochi media liberi di un paese che, dopo vent’anni di lotte continue, ha forse dimenticato cosa sia la legalità.
Kasmo Radio, il cui nome significa la voce delle donne, è un emittente finanziata dall’UNESCO che ha aperto i battenti proprio l’8 marzo 2013 per dare voce ad un universo sociale molto disagiato, dove oltre due terzi delle donne somale non arriva a frequentare l’istruzione secondaria. La radio non è però l’unico nome di spicco dell’informazione libera della Somalia. Esiste ad esempio un soggetto molto più conosciuto ed autorevole, vale a dire Radio Shabelle, stazione fondata nei primi anni duemila che è finita spesso nel mirino dei miliziani islamisti di Al Shabaab, i quali nel loro momento d’oro tra il 2007 e il 2012 hanno ucciso diversi giornalisti di questa radio, tra cui i manager Bashir Nur Gedi e Mukhtar Mohamed Hirabe.
Purtroppo la successiva cacciata dei terroristi islamici da Mogadiscio non sembra aver migliorato di molto la situazione, come dimostrano gli sviluppi che hanno seguito la vergognosa violenza subita da Hassan. La ragazza infatti sarebbe stata aggredita da due suoi colleghi, Jebril Abdi e Abdicasis Africa, che lavorano per conto dell’emittente statale Radio Mogadiscio.
Non è un caso che uno dei primi a coprire la vicenda sia stato un giornalista di Radio Shabelle, Mohamed Bashir Hashi, il quale è finito a sua volta in carcere, senza accusa o processo, dopo l’intervista che aveva fatto ad Hassan. E non è finita qui, poiché subito dopo è stato arrestato anche il direttore della radio, Abdimalik Yusuf Mohamud, durante una sua visita ad Hashi al Dipartimento per le indagini criminali, mentre le autorità imponevano la fine delle trasmissioni all’emittente.
Come previsto, al pugno di ferro contro i giornalisti di Radio Shabelle e Kasmo Radio non è corrisposta uguale severità ai giornalisti ‘governativi’ di Radio Mogadiscio, che nonostante le gravi accuse nei loro confronti sono stati rilasciati poche ore dopo il loro arresto. Inoltre pochi giorni fa gli stessi imputati, probabilmente infastiditi dalla cattiva reputazione attirata su di loro anche a livello internazionale, hanno persino minacciato di morte Hashi e Mohamud, colpevoli di aver sollevato un polverone che in altre circostanze sarebbe passato sotto silenzio.
Del resto di casi che tirano in ballo l’atteggiamento omertoso del governo somalo non mancano. Nel solo 2013 esistono almeno altri due episodi che hanno fatto discutere. Il primo è avvenuto a gennaio e ha riguardato il giornalista Abdiasis Abdinuur Ibrahim, arrestato e condannato ad un anno di carcere con l’accusa di aver offeso le istituzioni. Questo perché secondo il governo avrebbe ‘inventato’ uno stupro di una donna ad opera della polizia, una versione a cui evidentemente hanno creduto in pochi se il giornalista è stato poi scarcerato assieme alla ‘finta vittima’ (già, hanno arrestato anche lei) due mesi più tardi per le forti proteste internazionali. Il secondo ha riguardato invece una donna finita in stato di fermo per aver denunciato uno stupro di subito da alcuni soldati appartenenti all’Unione Africana, che si trovano in Somalia nell’ambito della missione di pace AMISOM. Anche qui la vicenda si è conclusa con uno scontato nulla di fatto.
La cagionevole salute della stampa somala potrebbe non essere una sorpresa, visto il contesto caotico che sta caratterizzando la Somalia negli ultimi decenni. Divisioni di cui si stanno approfittando gli Stati vicini (Kenya ed Etiopia), gruppi terroristici (Al Shabaab) o criminali.
Sfortunatamente in quest’ultimo campo noi italiani giochiamo un ruolo di primo piano. I media infatti abbondano d’inchieste sul traffico di rifiuti gestito prevalentemente dalla ‘ndrangheta, che ha trasformato il Corno d’Africa paese in una vera e propria discarica a prezzi modicissimi: si parla di meno di tre dollari per far sparire una tonnellata di rifiuti tossici dall’Italia. Una realtà emersa nuovamente in questi anni, ma di cui si aveva già sentito parlare a metà degli anni novanta con una coppia di giornalisti passati alla storia: Ilaria Alpi e Miran Hrovatin.
Oggi ricorre proprio il ventesimo anniversario di quella sciagurata giornata che ha visto la loro barbara uccisione a Mogadiscio, dove stavano documentando la guerra civile scoppiata da meno di tre anni. Si dice che i due siano caduti vittima di un piano mirato a tacere un traffico di rifiuti che non riguardava solo le cosche mafiose, ma addirittura imprenditori e uomini di governo italiani della morente Prima Repubblica.
Una Commissione parlamentare d’inchiesta presieduta da Carlo Taormina venne chiusa nel 2006, traendo come conclusione che la Alpi fosse semplicemente caduta vittima di una tentata rapina. Le indagini tuttavia sono state riaperte nel 2011 e lo scorso dicembre il presidente della Camera Laura Boldrini ha avviato la procedura di desecretazione degli atti acquisiti dalla Commissione parlamentare che hanno lavorato sul caso. Qualunque sia la verità è inaudito che dopo tutto questo tempo non si sia fatto un minimo di luce su una delle pagine più oscure della nostra storia.