Un papa espansivo, autentico, imprevedibile. Tanti sono gli aggettivi che hanno accompagnato questo primo anno di pontificato di Jorge Mario Bergoglio, arrivato a guidare una Chiesa la quale, schiacciata dai suoi mille problemi, sembrava sul punto di ritirarsi dalla scena come aveva fatto Benedetto XVI.
Mentre Ratzinger aveva stupito il mondo con il suo atto sconvolgente, papa Francesco lo sta facendo con il suo stile originale di cui Limes tenta di tracciare un bilancio nel suo ultimo numero ’Le conseguenze di Francesco’, presentato oggi a Roma al Palazzo Incontro. All’evento, organizzato in collaborazione con il Progetto ABC della Regione Lazio, ha visto la partecipazione, oltre al direttore di Limes Lucio Caracciolo, del giornalista di Vaticano Insider Gianni Valente, dell’esperto di questioni americane e mediorientali Dario Fabbri e del coordinatore del Limes club di Roma Flavio Alivernini. E questa volta la discussione si è arricchita con qualche intervento dal pubblico.
Bergoglio si è trovato davanti una missione apparentemente impossibile per Caracciolo, ovvero quella di convertire una Chiesa introvertita in un soggetto capace di essere nuovamente in uscita. In controtendenza con le discussioni dottrinali che in questi ultimi hanno prosciugato la vitalità della Chiesa, Papa Francesco ha recuperato la gerarchia dei principi, unendola alla flessibilità tipica dei gesuiti per dare un volto più credibile ed accessibile alla sua missione.
Il compito non sarà facile sia per il pericolo di un accentuato sincretismo verso culture molto diverse tra loro, il che avrebbe l’effetto di aggravare una comunità cattolica già di per sé molto divisa – come dimostrano diversi sondaggi su temi come la sessualità o la famiglia – che stanno già mettendo in dubbio il significato stesso di Chiesa universale.
Da questa prima analisi emerge dunque un papa con un interesse privilegiato per mondi su cui la Chiesa ha dedicato finora un attenzione secondaria rispetto all’Occidente. In questo senso il rapporto di Bergoglio con l’inglese è abbastanza esemplare. Per il pontefice si tratta una lingua complessa, un giudizio che secondo Dario Fabbri può essere usato per comprendere anche il suo rapporto con una delle principali potenze mondiali, gli Stati Uniti. Tra il papa e Obama c’è stata una sorta di ambivalenza, visto che se da un lato i due condividono molti aspetti a livello morale e interiore (dalla regolarizzazione dello Stato sociale al welfare), dall’altro collidono in politica estera a causa delle posizioni vaticane che nella Casa Bianca non esitano a definire terzomondiste.
I casi più eclatanti sono stati la guerra in Siria e l’Ucraina, in cui gli inviti al dialogo di Papa Francesco – nel primo caso Bergoglio esclude addirittura il ritiro di Assad come precondizione fondamentale alla risoluzione della crisi – suonano quasi come una scelta troppo filo russa davanti all’interventismo di Washington, dove siedono comunque parecchi cattolici come il segretario di Stato John Kerry o il direttore della CIA John Brennan.
Non è piaciuta nemmeno la foto del pontefice al fianco di alcuni oppositori del fracking, la nuova tecnica d’estrazione d’idrocarburi su cui l’America sta puntando molto negli ultimi anni per riconquistare l’indipendenza energetica. La posizione del papa potrebbe peraltro creargli problemi in casa propria, essendo il fracking considerato anche da molti paesi sudamericani, tra cui la stessa Argentina nel sito di Vaca Muerta. Gli eventuali screzi, come ha detto lo stesso Fabbri al sottoscritto, non dovrebbero ad ogni modo impensierire più di tanto il pontefice, che si prepara nel frattempo ad un incontro per il prossimo 27 marzo proprio con Obama. Nell’occasione gli argomenti da discutere non mancheranno di certo.
Questa ristrutturazione, o meglio de costruzione, dei rapporti tra la Chiesa e il mondo in fondo è molto coerente con l’immagine che Gianni Valente offre del pontefice, quale un uomo che considera i gesuiti come lui dei decentrati, dal pensiero incompleto e in perenne tensione. Per Bergoglio l’unico centro dell’uomo deve essere Cristo e non la Chiesa, col risultato di far soppiantare la dialettica dal senso di sicurezza e sufficienza.
Particolarmente significativo a questo riguardo sono le considerazioni che fa il papa nella lettera apostolica Evangelii Gaudium, scritta lo scorso novembre, dove pone l’attenzione alla dicotomia spazio-tempo. Qui Bergoglio sostiene la superiorità della dimensione temporale rispetto a quella spaziale, inquadrandola come opposizione tra l’attesa paziente dei processi e la smania di occupare con la forza tipica della vecchia Chiesa. Un simile atteggiamento, a parere di Valente, potrebbe aiutare il cattolicesimo a penetrare degli scenari molto delicati e costellati da tanti fallimenti: quello cinese, dove la cristianità è perseguitata al di fuori di quella ufficiale, che a sua volta non ha legami con San Pietro, o le minoranze cristiane in Medio Oriente, per le quali una difesa troppo oltranzista nei loro confronti rischierebbe di attirare troppa attenzione da parte dei fondamentalisti islamici su di loro.
Certo, ha osservato il giornalista Alessandro Aresu presente tra il pubblico, l’età incalza per lavorare con pazienza e il papa stesso ne è consapevole, ma non per questo le sue azioni vengono dominate dalla frenesia o l’angoscia. In lui domina invece un’immagine di autenticità e di spontaneità che viene comunicata grazie al suo uso particolare del linguaggio, a cui Flavio Alivernini ha dedicato molta attenzione. Si è già detto che Bergoglio non ama molto l’inglese e neppure troppo il francese della consuetudine diplomatica, preferendo ad essi l’italiano o, per dirla con la discutibile comicità dello showman tedesco Harald Schmidt, ‘la lingua dei poveri’. Il papa però non si accontenta di parlare un semplice italiano, ma tende ad infarcirlo di termini dialettali, compreso il gergo lunfardo, un codice nato nelle prigioni di Buenos Aires. Proprio dal lunfardo il pontefice ha cercato di creare nuovi immagini simboliche che spieghino meglio la sua idea di Chiesa, come il termine balconear (starsene alla finestra) che intima le persone a scendere per strada invece di rimanere sul balcone a commentare amaramente quanto succede sotto di loro.
Se è vero che secondo quanto diceva Pasolini gli italiani si sentono più vicini a chi usa il dialetto ed espressioni gergali, il grande seguito di cui gode il pontefice grazie alla sua forma inedita di comunicazione è lì a confermarlo. Questa apertura non poteva ovviamente esclude l’utilizzo di social network come Facebook e Twitter, dove si dice addirittura che gli studenti leggano i suoi tweet in latino per studiare la lingua.
Dietro questa indiscutibile innovazione restano molti dubbi che sono stati evocati anche durante lo scambio tra il pubblico e gli ospiti. Per esempio la visione anticostantiniana di Bergoglio che potrebbe mettergli contro molti interlocutori, tanto interni che esterni, basti pensare al ‘cesaropapismo’ del patriarca di Mosca, col quale mantiene comunque dei contatti molto stretti nell’ambito della crisi ucraina. Caracciolo in particolare teme il momento in cui le aperture di Bergoglio si troveranno a configgere seriamente con queste forze.
Difficile sapere chi vincerà in questo caso. Di certo, prendendo a prestito il giudizio finale di Valente, se il papa continuerà a porre l’accento sul ruolo della Chiesa come amica dell’uomo e sull’accettazione naturale della modernità, che sono la vera essenza di quello che voleva essere lo spirito conciliare – non l’ermeneutica che ha finito per avvitare il cattolicesimo su sé stesso – potrebbe avere buone chance di spuntarla.