Nel cuore dell’Asia giace un immenso tesoro nascosto nel deserto minacciato dai predoni. Suona come l’inizio di una favola, ma la descrizione calza a pennello per raccontare un paese che nonostante il trascorrere dei secoli ha mantenuto le stesse caratteristiche.
Ai tempi dell’ottocentesco Grande Gioco, quando gli uomini dello zar Nicola I e quelle britanniche della giovane regina Vittoria rischiavano la propria pelle per liberare degli schiavi dalle grinfie di un feroce Khan locale, questo luogo immaginifico si chiamava ancora Khiva. Oggi invece è conosciuto come Turkmenistan, sul quale gravano sempre grandi ricchezze, ma altrettanto grandi minacce.
Sebbene non se ne parli molto, questo paese potrebbe diventare in un futuro non molto remoto uno dei più importanti hub energetici dell’area grazie alle enormi risorse energetiche (le riserve di gas del Turkmenistan sono stimate al quarto posto al mondo) che gli stanno facendo macinare record su record di crescita economica.
Un motivo più che invitante per spingere a corteggiarlo non soltanto i paesi vicini, ma anche quelli più lontani come l’Italia, la quale rappresenta il terzo partner commerciale per le esportazioni. Il nostro paese vi ha infatti messo radici fin dal 2008 con ENI, che ha sottoscritto con il governo turkmeno una serie di accordi di sfruttamento (specialmente off shore nel Mar Caspio) che sono stati aggiornati proprio lo scorso febbraio con la visita del presidente dell’azienda Paolo Scaroni nella capitale Ashgabat.
Grazie a questa ricchezza d’idrocarburi il Turkmenistan è visto in Europa e in Asia come una potenziale alternativa al principale competitor dell’area, la Russia. Il tema di diversificare le fonti energetiche negli ultimi anni ha conosciuto fasi più o meno calde a seconda delle congiunture internazionali ed è tornato nuovamente alla ribalta con la recente crisi dell’Ucraina. Oltre a mettere in discussione l’integrità territoriale del paese con i suoi movimenti di truppe, la Russia ha minacciato di rivedere gli accordi sulle forniture energetiche come già fece ai tempi della rivoluzione arancione, quando il litigio tra Mosca e Kiev fece sentire le sue conseguenze nel cuore dell’Europa (non scorderò mai al riguardo la fiamma del gas sul mio fornello indebolita da una contesa distante migliaia di chilometri).
Tra le soluzioni di oleodotti alternativi ai tradizionali canali in mano alla Russia che toccano direttamente il Turkmenistan ci sono l’oleodotto Transcaucasico e il TAPI. Il primo dovrebbe seguire il percorso Turkmenistan-Azerbaijan-Georgia-Turchia e al massimo del potenziale arriverebbe ad una capacità tra i 10 e i 20 miliardi di metri cubi all’anno. Peccato solo che la sua realizzazione resti ancora allo stadio di pura fantapolitica, nel senso che quasi tutti gli attori sembrano remare contro.
In primo luogo ci sono la Russia e l’Iran che approfittano dell’ambigua situazione di sovranità marittima nel mar Caspio per rallentare il più possibile la posa del tratto che collegherebbe il Turkmenistan all’Azerbaijan. Questo problema risale al crollo dell’Unione Sovietica, quando la sovranità sul Mar Caspio passò da due Stati a ben cinque, che ancora oggi non si decidono se considerarlo un mare per delineare i rispettivi confini marittimi secondo standard definiti a livello internazionale, o un lago con la conseguenza di risolvere la faccenda attraverso accordi tra i diretti interessati.
Un altro problema è costituito dai paesi che dovrebbero continuare il percorso, come l’Azerbaijan tentato di prendere il posto di Ashgabat con le proprie riserve e la Georgia, pericolosamente instabile dopo la guerra del 2008 che ha portato ad un’accresciuta presenza russa presso l’area che dovrebbe ospitare l’oleodotto. C’è infine lo scarso quanto paradossale entusiasmo dell’Unione Europea, che doveva essere uno dei propulsori del progetto ma nonostante i ripetuti incontri bilaterali non è riuscita ad andare oltre le vane promesse.
Maggiore fortuna sembra avere il TAPI, l’oleodotto dalla capacità potenziale di 30 miliardi di metri cubi che dal Turkmenistan dovrebbe passare per Afghanistan, Pakistan e India. Questa settimana si è tenuto un incontro tra le autorità turkmene e afgane per parlare di cooperazione regionale, dove si è parlato anche della futura messa in opera del TAPI, in vista anche dell’imminente ritiro delle truppe occidentali a fine anno. Un passaggio quest’ultimo che potrebbe mettere in serio pericolo le miti ambizioni di Ashgabat.
Alcuni analisti hanno sollevato i loro dubbi sulla capacità delle forze di sicurezza turkmene di gestire la minaccia terrorista nel caso l’Afghanistan dovesse soccombere nuovamente ai talebani o simili. Si cita ad esempio il fatto che a differenza dei suoi vicini come il Kazakistan o l’Uzbekistan, il paese non abbia svolto aggiornamenti o esercitazioni sulla lotta antiterrorista. C’è poi da considerare la vantata neutralità di Ashgabat, che da una parte gli ha evitato gli strascichi che hanno colpito le ex repubbliche sovietiche (si pensi alla guerra tra Armenia e Azerbaijan sul Nagorno-Karabakh), ma dall’altra lo ha escluso da un qualsiasi accordo di difesa che potrebbe tutelarlo se dovesse presentarsi un emergenza militare. L’uccisione di tre soldati turkmeni da parte di alcune milizie afgane vicino al confine rivela come l’ostentazione di sicurezza e di rapporti di buon vicinato potrebbe non bastare.
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