“Dichiareremo guerra all’inquinamento” ha tuonato ieri il premier cinese Li Keqiang in occasione dell’apertura annuale del parlamento cinese, il primo della ‘quinta generazione’ comunista guidata da Li e dal presidente Xi Jinping. L’evento, a cui hanno partecipato oltre 3.000 membri del Partito Comunista Cinese, è stato accompagnato da un atmosfera particolarmente tesa, per via dell’attentato di sabato scorso nella città di Kunming, nella regione sud-occidentale dello Yunnan, dove un uomo ha massacrato a colpi di machete circa trenta persone.
Tra le priorità del nuovo governo, che compie in questi giorni un anno dal suo insediamento (forse incoronazione sarebbe un termine più adeguato al contesto), ci sono sia la lotta all’inquinamento che quella alla corruzione, oltre ad una crescita più sostenibile ed equilibrata che punta a mantenere l’inflazione al 3.5% e la crescita ad un più che rispettabile 7.5%. Ma c’è un altro dato di spesa che ha fatto alzre più di un sopracciglio nella regione: la spesa militare.
Nonostante la fama di potenza pacifica, molti sanno bene come negli ultimi anni la Cina abbia aumentato in modo sempre più importante le risorse destinate al suo vasto apparato militare. Dai 15 miliardi di dollari del 2000 il budget è aumentato ufficialmente di sette volte, arrivando a quota 112 miliardi, anche se questi dati in realtà non sono completamente trasparenti. Il fatto ad esempio che alcuni capitoli di spesa siano a carico di altri ministeri o dei governatori locali fanno presupporre a più di un analista che alla cifra si debba in realtà aggiungere un altro 30-50% del totale. Anche così tuttavia la somma che Beijing (Pechino) spende per le sue forze armate è ancora molto lontana dagli oltre 600 miliardi di dollari che versa l’America.
Ora mentre gli Stati Uniti, complice la crisi economica, prevedono di impiegare meno soldi nei prossimi anni, la Cina al contrario continua a rilanciare, arrivando persino a raddoppiare il budget per la Difesa dal 6,3% del 2013 al 12.2% previsto per l’anno prossimo. Ciò non toglie che ci vorrà ancora molto tempo prima che il Dragone possa sperare di competere seriamente con gli americani, in particolare tra le forze di Marina, che vedono attualmente l’unica portaerei cinese Liaoning contro un avversario di dieci volte superiore.
Il riferimento alla potenza marittima cinese non è casuale, perché sarà proprio sui mari che si giocherà gran parte della contesa regionale. Negli ultimi tempi si sono infatti moltiplicati gli incidenti per questioni di sovranità marittima tra la Cina e vicini come Filippine e Giappone, tutto questo allo scopo di accaparrarsi la fetta più grossa dei potenziali giacimenti energetici che riposano in queste acque. Il maggior punto dolente nell’area è la ben nota contesa delle isole Senkaku/Diaoyu, che lo scorso novembre ha visto cinesi e americani provocarsi a vicenda sorvolando l’area con i propri caccia.
Eppure l’ombrellone americano non è più da dare così per scontato, specialmente dopo la nomina a Segretario di Stato americano di un uomo più orientato in Europa e Medio Oriente come John Kerry. Con lui il cosiddetto pivot to Asia, la strategia di contenimento su cui avevano puntato molto Obama e il predecessore di Kerry, Hillary Clinton, ha subito un relativo arretramento, che negli ultimi mesi si è aggravato prima con l’accendersi della crisi siriana e successivamente di quella ucraina.
Per questo gli annunci di ieri di Beijing sul budget militare hanno messo in allarme gli alleati americani del Pacifico, spingendo Tokyo a riconsiderare con maggiore urgenza la propria Costituzione pacifista e ad aumentare anch’essa le proprie spese di Difesa, che ammontano attualmente a 50 miliardi di dollari, un livello paragonabile a quello della Francia. Gli sviluppi sembrano perciò assecondare un clima di sfiducia che però potrebbe rivelarsi molto meno grave di quello che sembra. In fondo la Cina, come lo stesso premier Li ha ribadito nel corso della riunione, ha ancora molti nodi da sciogliere a livello interno e questo riguarda questioni che superano il mero livello economico.
Tornando all’attentato di Kunming, le autorità hanno immediatamente puntato il dito contro i ‘terroristi uiguri’, la minoranza nell’estremo occidente del paese finita nel mirino per una serie di episodi violenti a cominciare dall’attacco di Tian’anmen dello scorso ottobre. Ma la campagna di controterrorismo ha spesso innescato episodi di pura repressione, come l’arresto forzoso del professore di origine uigura Ilham Tohti, avvenuto a gennaio nella sua casa di Beijing. Di lui, a parte le accuse di ‘secessionismo’ giunte soltanto un mese dopo la sua scomparsa, ancora non si è saputo più nulla.
Foto China Daily