Nove miliardi e mezzo di dollari. Ammonta a tanto il risarcimento che la Corte Suprema ha chiesto nel 2013 alla compagnia petrolifera Chevron, accusata di aver inquinato milioni di ettari di foresta amazzonica del paese tra il 1964 e il 1990. La lunga attesa delle migliaia di abitanti coinvolti in questo disastro ambientale sembrava dunque essersi finalmente conclusa, finché ieri dagli Stati Uniti è giunta una sentenza che come un fulmine a ciel sereno potrebbe rimettere tutto in discussione.
Il giudice di New York Lewis Kaplan ha denunciato “gravi irregolarità” nel processo ecuadoriano, sostenendo addirittura che il gruppo di avvocati in difesa delle vittime avrebbe corrotto i giudici con una somma pari a 300.000 dollari per assicurarsi la condanna di Chevron, la quale ha acquistato nel 2001 la compagnia Texaco direttamente responsabile degli incidenti in questione.
Le aree interessate sono quelle dell’Ecuador nord-orientale, dove la Texaco nelle sue operazioni di estrazione di petrolio avrebbe versato nel territorio circa 130 milioni di litri tra acque reflue tossiche e greggio, provocando gravissimo danno ambientali. Il caso forse più celebre a questo riguardo è quello del pozzo di Lago Agrio, il quale rimane ancora oggi un luogo completamente insalubre, tanto che la percentuale di contrarre un cancro qui è superiore al 150% del normale.
Ma ci sono voluti quasi vent’anni prima che le denunce contro la multinazionale iniziassero davvero a prender piede. Questo perché i governi di Quito spesso danno più ascolto alle compagnie petrolifere che alla popolazione, come sembra stia succedendo di nuovo di recente con un altro colosso del settore, la CNPC. Stando a quanto dice un’inchiesta del Guardian, l’azienda di proprietà statale cinese si sarebbe aggiudicata lo sfruttamento di vaste aree della foresta amazzonica comprese nel parco nazionale di Yasuni. Qui vivrebbero i Taromenane e i Tagaeri, due tribù indigene che hanno scelto di vivere in modo tradizionale e vedono il loro destino, assieme a quello della fauna e flora locali, minacciato da una potenziale rendita petrolifera di ben 800 milioni di barili.
Ad un gigante insomma sembra che ne stia per subentrare un altro. Tornando alla Chevron, che si dice soddisfatta del verdetto di Kaplan, non è la prima volta che la potente compagnia americana con sede a San Ramon (California) fa parlare di sé. Tra gli anni ’30 e ’50, quando si chiamava ancora Standard Oil of California (SOC), la Chevron divenne famosa per aver partecipato alla cosiddetta ‘cospirazione della General Motors’, ovvero l’acquisto massiccio di tram e treni elettrici da parte di compagnie partecipate dai produttori di autovetture e pneumatici come la GM, la SOC e la Firestone. Tutto questo per uno scopo ben preciso: spingere molte città americane rimaste sprovviste di questi mezzi a convertire le proprie reti di trasporto con autobus fabbricati dalle aziende coinvolte nell’affare.
Ci sono poi numerosi dossier controversi sparsi in tutto il mondo. Lo sfruttamento dello shale gas della Chevron ha scatenato proteste in diversi luoghi come la Polonia, la Romania o nel sito di Vaca Muerta in Argentina, dove il governo ha represso duramente le migliaia di manifestanti che si opponevano contro di lei e la Repsol. In Nigeria la compagnia ha fornito persino i mezzi per trasportare i militari che hanno schiacciato in modo ancora più brutale una rivolta che era esplosa in un pozzo situato nel delta del Niger. In Brasile e in Angola la compagnia è stata invece multata pesantemente per lo svernamento di petrolio nelle coste, mentre in Bangladesh le sue attività avrebbero causato indirettamente un incendio che ha devastato parte della foresta del parco nazionale di Lawachara.