Non possono spostarsi, lavorare, possedere proprietà o avere più di due figli. Contro di loro si scagliano i buddisti aizzati dall’insolita ferocia del monaco Wirathu e dei gruppi più estremisti, che in molti casi non si accontentano di boicottare i loro negozi o minacciarli e passano direttamente alle mani. E le centinaia di morti che hanno segnato gli ultimi due anni spiegano molto bene come finiscono di solito questi scontri.
La vita della minoranza di fede musulmana Rohingya – circa 800.000 persone stanziate prevalentemente nello stato del Myanmar occidentale di Rakhine – insomma era già molto difficile in passato. Eppure in questi giorni la loro esistenza potrebbe diventare addirittura più drammatica, poiché il governo di Naypyidaw, sollevando un mare di polemiche ha deciso di cacciare dai loro campi rifugio il personale di Medici senza frontiere (MSF).
In una situazione di completo abbandono da parte delle istituzioni, i Rohingya hanno come unico soccorso l’intervento delle ONG stanziate nel paese, tra cui MSF che gli offre le cure mediche altrimenti impossibili in uno Stato dove i Rohingya non sono neppure cittadini.
Purtroppo quello che per molti è un atto di umana carità, per la maggioranza buddista birmana era diventato un motivo di crescente attrito con MSF, al punto che negli ultimi mesi sono scoppiati dei casi che hanno avvelenato il clima attorno a loro. Lo scorso novembre ad esempio, nel corso dell’ennesimo scontro interconfessionale, i medici dell’ONG sono finiti nel mirino per aver soccorso i Rohingya, ma non i buddisti, di cui l’associazione avrebbe ricevuto segnalazione solo dopo che questi erano già stati ricoverati dalla comunità locale.
Con il nuovo anno il clima sarebbe peggiorato con le denunce di MSF in merito alle violenze che hanno colpito il villaggio di Du Chee Yan Tan. Da una parte le Nazioni Unite sostengono che in questa rappresaglia hanno perso la vita una quarantina di Rohingya, donne e bambini compresi, ma il governo birmano, chiamato direttamente in causa per il presunto coinvolgimento della polizia, ha sempre negato l’entità del massacro.
A dare una testimonianza in qualche modo compromettente è stata proprio MSF, i cui medici dicono di aver curato decine di Rohingya scampati alle violenze, scatenando la furia dei buddisti che accusano l’ONG di diffondere “voci destabilizzanti”. Le parole dei medici sui fatti di Du Chee Yan Tan probabilmente sono state la goccia che ha fatto traboccare il vaso. Poche settimane dopo le autorità birmane avrebbero dato finalmente l’ordine di sfrattare l’ONG dalla regione di Rakhine senza alcuna considerazione umanitaria.
In molti, comprese le altre ONG presenti a Rakhine che temono di essere le prossime della lista, vedono l’ordine del governo come un cinico e crudele tentativo di costringere i Rohingya ad andarsene dal paese. Peccato che neanche volendo possono farlo, visto che nel confinante Bangladesh, di cui sarebbero originari, paradossalmente non sono meglio accettati che in Myanmar.
Questa catastrofe umanitaria di cui non molti sono a conoscenza, ma della quale abbiamo parlato più di una volta, è una macchia profonda ed imbarazzante per un paese che dopo anni di dittatura si dice finalmente pronto ad abbracciare la vita democratica. Sfortunatamente la pragmatica timidezza sull’argomento della stessa paladina dell’opposizione Aung San Suu Kyi, che non vuole inimicarsi troppo l’opinione pubblica in vista delle prime elezioni generali ‘libere’ del 2015, non pare offrire grandi speranze agli sfortunati Rohingya.
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