Quando lo concepì originariamente lo pensò così, in Stop-Motion, ma a causa dei limiti imposti a quel tempo dal denaro da investire ne fece un cortometraggio in live action.
Victor Frankenstein, un bambino apparentemente spaesato e introverso riporta in vita il suo compagno di giochi Sparky, un graziosissimo bull terrier devoto e affettuoso che muore accidentalmente investito da un’auto. Questo importante esperimento e la scoperta dell’immortalità attrarrà un gruppo di compagni di classe che tra sgomento, spavento e curiosità cercheranno di imitare il visionario genietto… ma il risultato non sarà così mostruosamente positivo.
L’energia, l’entusiasmo di Sparky in contrapposizione all’avidità e al banale conformismo: tutto questo è Franknenweenie, un clamoroso percorso all’indietro che Tim Burton fa compiendo un viaggio alle origini della sua creatività. Innanzitutto una tecnica a lui congeniale fatta di modellini e ricostruzioni in studio attraverso la quale si può sperimentare realmente la “creazione” della vita stessa.
Questa modalità di animazione ha offerto a Burton la piena libertà di azione: le emozioni suscitate in lui dai film horror anni ’30, in particolare Frankenstein di James Whale, paura, realtà e finzione finiscono per essere messe al servizio del pubblico, palesandole attraverso questa creazione. Potremmo definirla onirica e surreale, forse poco concreta, ma certamente legata ad un giovane ragazzo poco conforme e che giocava nei cimiteri (Burton).
Un film autobiografico insomma, che racconta le passioni e le angosce del regista di Burbank: Sparky rappresenta infatti il superamento di ogni logica di convenzione e apparenza.
Per comprendere fino in fondo l’idea che è sottesa nel film e cosa pensa il regista dei normali e dei conformisti basti notare attentamente il personaggio di Stranella: non si trova a proprio agio con le altre persone, è enigmatica, introversa e con lo sguardo fisso il tutto unito ad una voce mono tono senza nessun tipo di slancio. Un personaggio senz’anima ne spessore che alla fine finisce col creare il più pericoloso dei guai.
Rappresentata con questo color bianco, talmente acuto da esser quasi un’anafora coloristica sottolineante l’essenzialità del personaggio (notare come anche il suo gatto, portatore di sventura, è “tremendamente” bianco e non nero come nell’immaginario collettivo) Stranella non è altro che il piattume della tradizione, la noiosa convenzione sociale. Finta quanto surreale.
Questi gli elementi di un film semplice, genuino, forse troppo breve, ma sicuramente da non perdere.